È stata una delle icone di un Paese che negli anni 60 si scrollava di dosso dolore e macerie e voleva sorridere: la sua storia iniziò su una bici scassata e proseguì al Madison Square Garden
La gente di frontiera si tiene stretta quell’identità con la quale la Storia a più riprese gioca a dadi; come se ad andarci di mezzo non fossero i destini degli uomini; i giorni delle loro vite che nessuno restituirà loro; le mura sbriciolate delle loro case; i loro bagagli di fortuna allestiti con quella rimanenza di cuore che gli pulsa in gola prima della fuga. La gente di frontiera sa cosa vuol dire abitare quella terra di nessuno dove finisce il torto di quelli che la Storia ha condannato e per un poco, ma quel tanto che basta al dolore dei popoli, non comincia ancora la ragione spiegata nei libri di chi l’apprenderà senza i distinguo e le sfumature della verità. E finisce che i confini te li porti dentro; proprio perché da quando nasci a quando cresci nel frattempo sono cambiati: qualcuno sarà riuscito a oltrepassarli, qualcun altro li avrà subiti; altri ancora ne saranno stati inghiottiti.
istria
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Non solo per via di metafora. Si chiamavano e si chiamano foibe; fenditure carsiche della memoria storica, riempite dalla polvere della dimenticanza; ignorate, o forse rimosse da quei libri di storia dove si celebra una Liberazione dalla quale migliaia di italiani dell’Istria, della Dalmazia e della città di Fiume appresero soltanto la differenza tra fuggire e precipitare. Colpevoli per lo sciovinismo fascista, che lì considerava degli slavi mancati, prima; per la ritorsione dei partigiani di Tito, che li perseguitarono per un motivo speculare, dopo. Quando Giovanni Benvenuti vi nacque, il 26 aprile del 1938, Isola d’Istria era in Italia, poi divenne jugoslava; oggi è in Slovenia. Come dire venire alla luce con le stigmate del profugo, dell’esule. Se non subito, di lì a poco tempo. Nella "tua" terra che dopo pochi anni non sarebbe più stata tale. OZNA, la polizia segreta del regime jugoslavo; acronimo gelido e feroce al contempo per sintetizzare gli espropri, gli allontanamenti, le epurazioni; quella che non era altro che una pulizia etnica, con la differenza che non c’era tempo per parlarne, non c’era intenzione soprattutto, nello scacchiere dei delicati equilibri appena creatisi. E poi chi finisce in un crepaccio, legato a un masso o a un suo famigliare, non ha diritto nemmeno all’eco del proprio dolore. Rinascere, una seconda volta, come atleta predestinato, nelle proporzioni e nelle movenze che in un corpo bambino custodivano già l’embrione del campione. Dopo aver visto il suo fratello maggiore, Eliano, prelevato e portato via, un giorno, senza altro motivo che non fosse la colpa di quel cognome così italiano, così amaramente ironico se rapportato al disprezzo da parte degli invasori.
ROMA '60 e poi...
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Giovanni detto Nino Benvenuti per la mitologia nazionalpopolare di un’Italia che voleva iniziare a essere spensierata, anche a costo di apparire ingenua, è un paio di guantoni nel cuore del boom economico. Un’immagine che oltre a essere vincente aveva anche il merito di essere rassicurante, aggettivo quest’ultimo che va quasi oltre la pienezza del suo significato, pensando che dalla più grande tragedia del novecento erano trascorsi soltanto vent’anni, più o meno e che il ricordo del "piede straniero sul cuore" era lungi dal cicatrizzare. Prima che si accendesse la luce dei riflettori, c’era la bicicletta polverosa e cigolante con la quale doveva arrivare a Trieste per allenarsi: cinquanta chilometri prima di cominciare a lavorare in palestra. Un’Olimpiade negata, quella del 1956, soltanto perché il destino gli aveva steso il tappeto della gloria per quattro anni dopo: una bandiera italiana sotto un cielo dello stesso colore, a Roma ‘60. Nella custodia della medaglia d’oro, una dedica autografata da Jessie Owens. Ma più galvanizzante della medaglia, se possibile, il trofeo Val Barker, che andava al pugile che si era mostrato tecnicamente più dotato del torneo. Benvenuti col suo stile se lo era meritato soffiandolo a un mediomassimo che al Villaggio Olimpico già chiamavano "il sindaco", tale Cassius Clay.
MAZZINGHI E GRIFFITH
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Persino imbarazzante stare a ricordare ciò che dopo sarebbe arrivato, perché non è soltanto storia della boxe, o dello sport in generale: è storia d’Italia, del costume della nazione. Racconta di nottate alla radio o di capannelli notturni davanti ai televisori monumentali col tubo catodico; di contrapposizioni tra Montecchi e Capuleti del tifo pugilistico per la sua rivalità, anche dialettica, con Sandro Mazzinghi: quest’ultimo combattente indomabile, Benvenuti artefice di una lotta danzante, di distanze cesellate dai suoi diretti d’incontro. E, a crescere, la narrazione varca l’oceano, perché la danza di Nino l’istriano strega lo sguardo dei giudici del Madison Square Garden, quando prende il via quella vera e propria trilogia del dolore rappresentata dai confronti con grande Emile Griffith.
EPILOGO E MORALE
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Campione del mondo, nel mondo campione, Nino Benvenuti, testa pensante e scelte poco convenzionali, in un’Italia e in un tempo in cui all’atleta non si chiedeva certo di ragionare, meno che mai di schierarsi. Agli antipodi della sua boxe apollinea e impeccabile, tutta la rabbia dionisiaca di Carlos Monzon, affrontato e vissuto, nonché subito, all’apogeo di una carriera che contro l’argentino avrebbe conosciuto la fase discendente della parabola. Vissuta con stile, anche quella. E proprio in ragione di questa autenticità gli italiani dopo quelle sconfitte epocali si sono profondamente dispiaciuti, come è ovvio; ma non si sono mai sognati di allontanarsi, da un campione che restava tale anche all’indomani del riconoscimento lucido di una grandezza altrui rivelatasi maggiore della propria. Tutto quello che aveva vissuto e patito ha dato un senso più profondo a ciò che nel tempo avrebbe conquistato; proprio per questo viene naturale dire che grazie a Nino Benvenuti gli italiani non hanno soltanto festeggiato grandi vittorie: si sono anche sentiti migliori.