A Livorno il bomber ha salutato i tifosi dopo l’annuncio del tumore: "È una partita così complicata, ma non mi aspettavo tanto affetto. Da bambino volevo il pallone di Argentina '78, papà mi fece vedere dove si faticava per poterlo comprare, e io..."
"Non è facile. Però ci proviamo". Difficile capire da dove iniziare quando l’argomento è così serio, intimo. Chi ha visto giocare Igor Protti se lo ricorda come uno di quegli attaccanti che vanno dritti in porta, testa bassa, grandi falcate, e gol. Una valanga. Più di chiunque altro in tre stagioni in particolare e in tre categorie diverse, quando è diventato capocannoniere prima in Serie A, poi in C1 e infine in B, in questo ordine. Un record, come quello di essere diventato il miglior marcatore del massimo campionato nell’anno in cui la sua squadra è retrocessa: il Bari 1995-96. Quel Protti si è ritirato dal calcio giocato vent’anni fa e oggi, con la voce che ogni tanto si rompe, racconta la sua "partita più difficile contro un avversario sleale che non ti guarda in faccia, negli occhi, ma che si nasconde per tanto tempo". L’annuncio della malattia a inizio luglio: "Un mese fa mi è stato trovato uno sgraditissimo ospite". E da lì i ricoveri, le giornate a casa, le cure e la chemioterapia che comunque non l’ha fermato dal tornare al Picchi di Livorno per la prima in casa dei toscani contro la Ternana. Un giro di campo, un abbraccio, le lacrime. Quanto amore.
Che momenti.
"Le emozioni sono troppo difficili da spiegare, vanno vissute e provate in prima persona per capirle. Per me è stata una giornata molto particolare. Ci tenevo ad essere allo stadio anche se stavo sotto chemioterapia. Faccio dei cicli che durano 48 ore e mi procurano tanta stanchezza ma ci tenevo perché da quando ho annunciato la mia malattia ho ricevuto così tanta solidarietà che non mi aspettavo un’ondata di affetto del genere. Io vivo qui vicino, per me è stato più facile andare qui che altrove e ringraziare quei tifosi che sono venuti all’ospedale Santa Chiara e poi sotto casa mia con degli striscioni di incoraggiamento e vicinanza. Il pensiero del futuro c’è e mi sono detto: 'Igor, andiamo, perché è un’occasione e non si sa se ce ne potranno essere delle altre'".
Sembra stupito da tutto questo affetto.
"Certo, non posso non pensare ai tantissimi messaggi di tifosi di tante altre squadre in cui non ho giocato, alcune contro le quali ho giocato dei derby sentitissimi. E penso a quelli del Pisa, dello Spezia, del Lecce, della Roma e ne cito solo alcune. Questo mi ha confermato che il calcio è una grande comunità in cui ci sono tifoserie che la domenica tengono per la propria squadra ma c’è sempre qualcosa di più grande che unisce tutti nei momenti di difficoltà".
Ha sempre mantenuto i piedi per terra o qualche volta ha ceduto al fascino del successo?
"Rispondo con quello che mi hanno detto tante volte i tifosi: sono nato così e sono rimasto così. L’aver giocato in A non mi ha cambiato. Il calciatore finisce, la persona rimane. Poi è chiaro che ci sono dei momenti in cui la gente ti fa sentire come qualcuno che arriva da un altro pianeta e io mi imbarazzavo. Prima di giocare a calcio ero un tifoso e non ho dimenticato cosa significava stare da quella parte".
Attaccante per lo più di città marittime per caso o per scelta?
"No, non credo sia un caso. Per chi nasce sul mare è difficile pensare di poter vivere senza averlo vicino. Almeno per me è così. Le scelte delle squadre avvenivano anche in base alla posizione geografica e, sì, se c’era il mare quello era un’attrazione e una possibilità in più di giocare in quella squadra".

Bari è stata una di quelle. Lì capocannoniere e retrocessione: avrebbe barattato quel titolo con la salvezza?
"Assolutamente sì. Avrei regalato un gol, sarei arrivato felicemente secondo nella classifica marcatori. Quell’anno a Bari ho fatto e abbiamo fatto una stagione fuori dalla norma. Tra l’altro siamo retrocessi in una campionato con 18 squadre e 4 retrocessioni…".
Che effetto le fa quando si ricorda di essere stato l’ultimo a segnare con la maglia numero 10 del Napoli in A?
"Maradona è il più forte della storia del calcio, a Napoli è Dio. Mi fa un effetto… Non c’è neanche da parlarne, è successo e basta. Io con Diego non c’entro niente".
Il Protti bambino chi aveva come idolo?
"Gianni Rivera, perché nelle giovanili fino ai 15 anni ho giocato a centrocampo. E la mia fissazione del numero 10 nasce da qui. Poi quando mi hanno spostato in attacco ho dovuto cambiare punto di riferimento e due giocatori che apprezzavo tantissimo erano Luca Vialli e Mark Hughes. Due attaccanti generosi, combattenti che ‘picchiavano’ e le prendevano anche, che cadevano e si rialzavano. Questo era il calcio che volevo vivere anche io".
Vede un Protti ora in Serie A?
"Un giornalista di Bari quando è arrivato Lautaro all’Inter, dopo qualche partita, mi ha mandato un messaggio e mi ha scritto: 'Igor, io guardo Lautaro e mi sembra di vedere te'. L’ha detta una persona che stimo e io la riporto soltanto".
Spietato in campo, umile fuori: ci si riconosce?
"Questo Igor fatto così nasce dall’educazione che ho avuto in famiglia, in particolare da mio padre. Quando avevo 11 anni volevo il pallone di Argentina ’78 e il mio babbo per farmelo avere mi ha portato in cantiere, lui era muratore. E mi ha fatto vedere come si lavorava lì e cosa significava guadagnare qualcosa per comprare quel pallone. Dopo una settimana di lavoro ho ringraziato mio papà e gli ho detto che non lo volevo più. Ho capito quanta fatica ci poteva essere dietro quel Tango".
Ha mai pensato a una vita senza calcio?
"Da bambino quando mi chiedevano cosa volessi fare da grande rispondevo: il dottore o il meccanico. Ma chissà… Poi ho pensato alla possibile connessione tra quelle due professioni che sembrano così distanti e alla fine entrambi aggiustano, sistemano qualcosa o qualcuno. In qualche modo aiutano".
Fuori dal campo lei si è speso tanto per beneficenza.
"Una volta ho interpretato una parte ne 'La bohème' a teatro. Poi ho fatto anche un altro spettacolo, sempre teatrale. Per il sociale ho sempre cercato di essere presente. Una delle cose belle che ci ha dato il calcio, e di conseguenza la notorietà, è la possibilità di poter fare tante cose con e per gli altri, anche solo mettendosi in gioco a teatro. Ho fatto la voce narrante di 'Pierino il Lupo'. Eccoli quel meccanico e quel dottore dentro di me con la loro voglia di aiutare qualcuno".
L’hanno chiamata “lo zar”, “il bimbo”… Più uno, l’altro o è una via di mezzo?
"Sono arrivato a Livorno che non avevo nemmeno 18 anni e mi hanno accolto proprio come un bimbo ed è un soprannome che per me ha sempre significato una dimostrazione di grande affetto. Lo zar implica il fatto che tu in quella città hai fatto qualcosa che ha lasciato il segno, è un’investitura, un titolo per chi ha lasciato un segno".
Un po’ come ha fatto con l’esultanza del 'trenino' a Bari.
"Quello nasce dall’arrivo di Miguel Guerrero che ci disse che quando loro segnavano in Colombia andavano alla bandierina e si mettevano a quattro zampe. Però a volte lo facevano anche sparpagliati, come cagnolini. Noi l’abbiamo interpretato tutti uniti, a treno appunto, e abbiamo creato questa prima esultanza di squadra che si sia mai vista. In quegli anni non c’era un campo di calcetto in cui non si vedeva il nostro trenino. Era un festeggiamento simpatico e che coinvolgeva tutta la squadra non solo chi aveva fatto il gol. Dava grande senso di gruppo. Per me è la più bella esultanza di gruppo nella storia del calcio".
A proposito di treni… in carriera ha sempre preso quelli giusti?
"Non ho rimpianti, sarei irriconoscente con la fortuna che ho avuto di giocare per 21 anni a calcio, ma non ho sempre preso i treni giusti. Ma so che se tornassi indietro, in quei momenti, con quelle sensazioni, con quei pensieri, rifarei esattamente le stesse scelte".
In una carriera di oltre 20 anni si ricorda di più la prima o l’ultima partita?
"Entrambe, anche se con stati d’animo e sensazioni completamente diverse. La prima è solo gioia, chi se la scorda nella mia Rimini, nel mio Romeo Neri, lo stadio in cui andavo a fare il tifo da bambino e poi da raccattapalle. Invece nel 2005 uscire dal campo alla fine dell’ultima partita della carriera col Livorno ha preso il sopravvento la nostalgia e l’amarezza legata al fatto che stava finendo un grande e lungo capitolo della tua vita che non tornerà mai più. E ora ho quest’altra partita…".
Contro lo sgraditissimo ospite.
"Sì. Si combatte. Non so cosa succederà. Tutti mi dicono: 'Igor lotta come hai fatto in campo, segna il gol più importante', e mi fa piacere ma questa è una partita diversa. Perché quando si entrava in campo ci si guardava negli occhi da avversari con lealtà. Si partiva dallo 0-0, si metteva la palla al centro e ci si affrontava e alla fine si vedeva chi era stato più bravo. In questo caso il mio avversario si è nascosto per tanto tempo purtroppo. E la partita inizia almeno con un 3-0 per lui, quindi è complicata. Molto. Io so che ce la metterò tutta, so che gli staff del Santa Chiara di Cisanello che mi stanno seguendo faranno lo stesso e poi so che c’è anche il cielo che decide come devono andare le cose. Ho una famiglia meravigliosa, allargatissima. Ora ho una compagna ma sono rimasto in ottimi rapporti con la mia ex moglie. Ho figli, nipoti, la famiglia a Rimini con mamma, sorella, cugini, una marea di parenti che sento tutti vicini. E quello che mi fa più male è far soffrire loro".