La psicoterapeuta Rita Lombardi spiega come prevenire gli effetti collaterali di un ego troppo marcato
Daniela Cursi Masella
16 ottobre - 17:16 - MILANO
“È una questione di ego”. Una frase che ricorre spesso senza conoscerne, tuttavia, la potenza. L’ego non è un concetto solo filosofico: la psicologia contemporanea lo studia concretamente. Un recente strumento clinico, il Perrotta Ego Hypertrophy Investigation Questionnaire (PEHI-Q), indaga proprio quanto l’ego di una persona incida sulla qualità della sua vita, sulle relazioni e sulla capacità di adattarsi al mondo. Il test analizza cinque aree (Ego-Power, Stability, Intensity, Effectiveness e Adaptation) e distingue l’ego sano, che sostiene la nostra identità, da quello ipertrofico, che la schiaccia. Il punto non è “avere un ego”, ma capire quanto spazio gli lasciamo e a cosa serve.
quando l'ego prende il comando
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Un ego ipertrofico reagisce, non risponde. Scambia una critica per un attacco, un confine per un rifiuto, un consiglio per una minaccia. Può manifestarsi in molti modi:
- Si offende alle critiche - Anche un’osservazione costruttiva viene vissuta come un’umiliazione. L’ego difensivo, quello che gli psicologi chiamano “alta autostima fragile”, reagisce con rabbia o chiusura. Il tipico “io sono fatto così”.
- Sminuisce gli altri - Per mantenere una posizione di forza, tende a giudicare o ridicolizzare chi, anche solo con la sua presenza, lo mette in discussione.
- Si deprime al rifiuto - Quando l’ammirazione o l’attenzione vengono meno, l’ego si sgretola: ne nascono tristezza, senso di vuoto, perdita di autostima.
- Può essere manipolato - Paradossalmente, chi ha un ego ipertrofico è vulnerabile: chi sa nutrirne la vanità, con lusinghe o approvazione, può controllarlo facilmente.
- Diventa rigido - Non tollera di cambiare idea o di perdere terreno, perché vive ogni flessione come una sconfitta personale. Quelle che comunemente vengono chiamate “questioni di principio”.
come mettere l'ego al proprio posto
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Queste reazioni, automatiche e ripetitive, sono il modo in cui l’ego cerca di sopravvivere. Ma noi siamo qui per vivere e l’unico modo è farlo con noi stessi. Come spiega la psicologa Jane Loevinger nella sua teoria sullo sviluppo dell’ego, una mente immatura tende a reagire in modo impulsivo e difensivo, mentre un ego maturo si apre, ascolta, integra. Ma quali sono le radici dell’ego ipertrofico? Riconoscerle è importante. La psicoterapeuta Rita Lombardi premette: “Dietro l’ego ipertrofico non c’è superbia, ma paura. Paura di non valere, di non essere visti, di non contare abbastanza. Spesso - prosegue l’esperta - affonda le radici in esperienze precoci di critica, rifiuto o amore condizionato, in ambienti dove l’approvazione si guadagna e non si riceve. La cultura moderna non aiuta. Premia l’immagine, il successo, la competizione. Così, l’ego impara che per essere amati bisogna apparire, non essere”. Non si tratta di eliminarlo, ma di rimetterlo al suo posto. “Un ego sano ci serve: ci dà stabilità, ci aiuta a dire “no” e a riconoscere il nostro valore. Il primo passo è quello di riconoscere le nostre reazioni. Ogni volta che sentiamo quella spinta a difenderci, a dimostrare, a giustificarci, possiamo chiederci “Sto parlando per proteggere il mio ego o per esprimere la mia verità?”. Già questa domanda sposta qualcosa. Ridimensiona l’ego, restituisce spazio alla consapevolezza, riporta il dialogo nel presente. Ed è l’inizio della libertà”. Mettiamo a confronto ego sano con ego ipertrofico. “Davanti ad una critica - spiega Rita Lombardi - il primo ascolta e valuta, il secondo si offende e reagisce; se gli si chiede adattamento, il primo cambia prospettiva, il secondo si irrigidisce. L’ego sano è empatico, include l’altro, mentre quello ipertrofico lo svaluta o lo usa. L’autostima del primo è radicata e flessibile, mentre il secondo dipende dall’approvazione esterna. Il mio consiglio è quello di sperimentare, forzandosi, l’ego sano. Provare ad arretrare quando serve, o chiedere scusa e accettare un limite senza viverlo come sconfitta. Sicuramente, in alcuni casi, è necessaria la terapia ma accade spesso che le persone riescano a passare autonomamente dalla reazione alla presenza. E la sensazione è talmente liberatoria che non si torna più indietro, al netto dell’imperfezione di tutti noi”.