L’ex difensore oggi allena l’Under 17 del Genoa: "Alla Juve mi sono sentito emarginato, rinato in rossoblù. Assolto da tutto ma ho perso l’Europeo per le scommesse"
C’era una svolta. C’è sempre quando la vita indirizza un destino, scartabella i giorni nel calendario, prenota un viaggio in un treno che non sapevamo stesse per partire. E mentre il rumore delle rotaie fa da punteggiatura ai pensieri che scappano, la notte ci accompagna da un’età all’altra. Mimmo Criscito ha 38 anni, ha smesso due estati fa, oggi allena l’Under 17 del Genoa e ai suoi ragazzi chiede una cosa piccola, che però dà senso a tutto il resto. "Quando arrivano al campo gli dico: sorridete, dimostrate a voi stessi che siete felici di stare qui, all’aria aperta, con un pallone, insieme ad altri ragazzi della vostra età"; glielo chiede perché — se ricorda quel viaggio, quel treno, quella notte in cui tutto ebbe inizio — a distanza d’anni è il suo sorriso che vede riflesso nel finestrino dei ricordi.
Mimmo Criscito, quale è stata la sua prima svolta?
"Avevo quindici anni, ero sul treno notturno che da Napoli porta a Genova. Con me c’erano altri ragazzi, anche Fabio Pisacane, che oggi allena il Cagliari. C’era adrenalina, l’entusiasmo che si ha a quell’età, ma anche il timore di un mondo nuovo che mi aspettava. Mi aveva preso il Genoa, stavo diventando un calciatore".
Quali sono le sue origini?
"Sono cresciuto a Volla, nell’area metropolitana di Napoli. Papà Alfredo operaio in una fabbrica di plastiche, mia mamma Maria casalinga. Due sorelle, Antonella e Rossella, un fratello, Andrea, nato proprio l’anno, il 2001, in cui ho lasciato casa (ride) diciamo che mamma voleva un altro ometto in casa. Da ragazzino il mio idolo era Maldini: lo guardavo e pensavo che quell’eleganza, quella posa, quella personalità, ecco, avrei voluto averle io. Quando l’ho incontrato da avversario lo guardavo incantato".
A ripercorrere la sua carriera spuntano allenatori di primissimo piano.
"Non sono così falso da dire che con tutti ho legato, ma a tutti devo qualcosa. Torrente mi fece esordire in B a sedici anni, Ranieri mi lanciò in A, Lippi mi ha regalato la mia prima maglia azzurra, con Spalletti ho condiviso la favolosa esperienza a San Pietroburgo, ma più di tutti, è Gasperini che mi ha formato. È stato un secondo papà, mi ha dato fiducia quando tutti mi guardavano storto e non credevano in me".
Altra svolta, ce la racconti.
"Sono alla Juventus, sbaglio un paio di partite, sì, anche quella del famoso gol di Totti, che mi manda fuori giri con una finta e segna. È vero, ero un pivello, ma mi sono sentito emarginato. La cosa che mi feriva di più erano le bugie sul mio conto, scrissero anche che mi ero messo in fila allo stadio per andare a vedere il derby della Lanterna, ma era tutto inventato. Quando tornai al Genoa Gasperini mi ridiede un equilibrio, mi cambiò ruolo, mi fece diventare il calciatore che poi sono diventato". Rimpianti per aver vissuto la Juve di striscio?
"No, è andata così. Ero giovane, si può sbagliare qualche partita a quell’età. Ma la Juve non ti aspetta, devi essere subito pronto".
Cosa ricorda del debutto in Nazionale?
"A Basilea, contro la Svizzera, a 22 anni. Ero convinto non avrei messo piede in campo, ma alla vigilia Lippi disse che io e Marchisio avremmo debuttato. Nel tunnel ero tesissimo, mi si avvicina Pirlo e mi fa: allora Mimmo, quando vedi che mi arriva il pallone, tu comincia a correre, corri, corri, tanto, stai tranquillo, guardami, ti metto il pallone a cinque centimetri dal piede. L’aveva detto per allentare la tensione, ci era riuscito".
In Nazionale lei ha vissuto anche il momento più cupo della sua carriera. Fu quando si trovò implicato nel calcioscommesse. Iscritto nel registro degli indagati con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla truffa sportiva.
"Ero a Coverciano, erano le sei di mattina, arrivò la polizia, in stanza stavo con Ranocchia, non capivo cosa stava succedendo. Pensai che fosse successo qualcosa di brutto a mio figlio, aveva sei mesi. Nello stesso momento gli agenti entravano a casa mia, c’era mia moglie Pamela, aveva ventuno anni. In quei giorni mi crollò il mondo addosso. Lei mi è stata accanto, sono diciotto anni che stiamo insieme, abbiamo tre figli, siamo felici, ma ne abbiamo passate, eh...".
Cosa pensava?
"Due cose. La prima: sono innocente, e alla fine avrò ragione. La seconda: se qualcuno vuole fregarti, ti frega. E tu non puoi fare niente".
Ha avuto ragione, è stato assolto da tutte le accuse.
"Però è stata una storia lunga, che mi ha tolto l’Europeo del 2012 e mi ha tolto la serenità".
Lei ha avuto il privilegio di pochi: chiudere il cerchio da professionista con la maglia del Genoa, la squadra del cuore.
"È stato come se ogni cosa tornasse a posto. Ero andato a Toronto, ma rimasi cinque mesi, quel calcio non lo sentivo mio. Tornato in Italia, pensavo di smettere. Invece no. Ho avuto la fortuna di giocare la mia ultima partita segnando un rigore sotto la curva del Grifone, toccando l’ultimo pallone in rete".
L’ultima svolta della sua vita è la nuova avventura in panchina.
"Sono convinto che la gavetta serva, aiuta a crescere. Il traguardo è quello di allenare in A, come tanti compagni che ho avuto nel Genoa, da Palladino a Juric, da Thiago Motta a Bocchetti: ognuno con il suo stile, ognuno con le sue idee".