"Per insegnare il calcio, la tecnica e tutto ciò che ne deriva, sono fra i più bravi. Per come stare bene col mondo esterno magari no: dovrei impegnarmi un po' di più". Questa frase attribuita a Giovanni Galeone si trova sul sottile confine tra leggenda e realtà, come tanti momenti della vita di questo allenatore "speciale" morto ieri ad 84 anni ad Udine. Ma lo descrive meglio di quanto avrebbero potuto fare chiunque altro.
Al di là delle vittorie in campo, del gioco aggressivo delle sue squadre, dei campioni da lui scoperti e poi lanciati, Galeone aveva rotto il diaframma che lo rilegava al calcio per entrare nell'immaginario collettivo dell'Italia degli anni '80 e '90, con una escursione fino al primo decennio dei 2000. Il suo periodo d'oro era legato al calcio di Maradona e Platini, dell'Inter a trazione tedesca e del Milan di Van Basten. Galeone allenava in provincia ma la sua rottura di ogni tipo di schema - sia sportivo che sociale - lo aveva reso un personaggio in tv ed un beniamino per le curve di mezza Italia. Proprio il "Pibe de oro" lo considerava uno dei migliori tecnici in Italia al punto che lo avrebbe voluto con sé a Napoli. D'altronde i due - allenatore e calciatore - erano accomunati dall'andare controcorrente, ad ogni costo. Nel calcio che si spinge alla continua ricerca di prestazioni fisiche esasperate, l'immagine di Galeone che fuma nervosamente in panchina è l'anticonformismo personificato. E anticonformista Galeone lo è stato sempre. Hanno fatto storia lo champagne e le pizzette portate ai giocatori a fine allenamento. O la denuncia di esser stato spinto a prendere ogni tipo di farmaco, quando era calciatore. Questo modo di fare ha lasciato una impronta forte nei suoi "ragazzi".
Il suo "allievo" più celebre e sicuramente il più riconoscente è Massimo Allegri che spesso - anche recentemente quando è andato a trovarlo in ospedale a Udine - lo ha indicato come figura fondamentale nella propria formazione calcistica. A lui devono molto anche Giampiero Gasperini e Marco Giampaolo. E Rino Gattuso che a 18 anni fu lanciato proprio da Galeone a Perugia. Era nato a Napoli il 25 gennaio 1941 ma era "friulano" nell'animo anche perché da giovanissimo si era trasferito a Trieste con la famiglia: l'inizio di un lungo peregrinare che lo ha portato a girare tutta l'Italia e a meritarsi - da tecnico - il nomignolo di "marinaio". Da calciatore ha calcato i campi di Udinese, Arezzo, Avellino, Entella e altre squadre minori. Poi a metà anni 70' l'inizio della sua avventura in panchina: dal Pordenone alla Spal, al Como, all'Ancona. Ma è soprattutto a Napoli, Perugia, Udinese e al suo Pescara è legata la sua storia calcistica. Ai piedi del Vesuvio fu sfortunato co-protagonista della retrocessione in Serie B nella stagione 1997-98 (esonerato dopo 20 partite).
"Andare dove neanche Mazzone era riuscito, è stato una follia e un errore di presunzione", disse anni dopo. Nessun trofeo vinto ma quattro promozioni in Serie A: due con il Pescara (1986-87 e 1991-92), una con l'Udinese (1994-95) e una con il Perugia (1995-96). A Pescara - dove era chiamato "il Profeta" - gli anni più entusiasmanti della carriera. Le sue squadre erano contraddistinte dall'adozione del modulo 4-3-3 - un dogma - e da uno stile di gioco offensivo e spettacolare che lo ha fatto amare specialmente dai tifosi. La teoria era: prendere anche tanti gol ma riuscire sempre a farne uno in più. Non sempre riusciva, ma il pubblico era certo di divertirsi. "Per me - diceva - il 4-3-3 è l'unico modulo che ha ragione di esistere, per giocare ci si deve divertire". Il "marinaio" si era poi ritirato dal calcio giocato nel 2013. Al di là del campo, è stato il suo spirito anticonformista ad averlo reso noto anche al di fuori dei campi di calcio. Ha fatto storia una risposta che diede all'istrionico presidente del Perugia, Luciano Gaucci, che gli chiedeva di controllare la vita dei calciatori: "Il sesso prima delle partite? Non sono mai stato in grado di organizzare il mio, figuriamoci quello degli altri".
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13 ore fa
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