Zebina: "Capello mi fece scoprire l'arte, a Roma presi pure una manganellata. In disco? Mi addormentavo..."

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L’ex difensore: "Vado alle mostre, avevo aperto una galleria a Torino. Prima della gara scudetto in giallorosso ho pianto dalla tensione. Io traditore? Ingiusto, prima ero un brocco e dovevo andarmene, poi..."

Lorenzo Cascini

3 novembre - 07:44 - MILANO

Se dovesse scegliere un quadro per raccontarsi opterebbe per “Il Viandante sul mare di Nebbia” di Caspar David Friedrich, il padre del romanticismo. Descrive un uomo solo, che scruta l’orizzonte e medita sul viaggio fatto. Jonathan Zebina, in qualche modo, gli somiglia. L’arte, d’altronde, è diventata la sua più grande passione. “Me ne sono innamorato grazie a Capello. Mi disse che uno con la mia sensibilità avrebbe apprezzato certe opere. E così è stato”. L’ex difensore ha gestito per anni una galleria d’arte a Milano e oggi ha aperto un negozio di interni. “Ho creato così la mia nuova vita fuori dal calcio”. Quando gli parli del suo passato, però, sorride, si apre e pesca aneddoti in sequenza. Ricordi, storie e pure qualche rimpianto. “Ho un po’ pagato l’essere un tipo solitario. Non sono mai andato a cena con i capi della curva e non ho amici giornalisti”.

Zebina, partiamo dall’inizio. Se è arrivato in Italia lo deve a un inseguimento in un parcheggio… 

“Che scena con Cellino! Il presidente era venuto a Cannes per vedere un mio compagno, ma rimase colpito da me. Mi inseguì nel parcheggio e mi disse 'Ti offro questo, non una lira in più' e mi portò in Italia. Mi dice sempre che sono stato la sua più grande scommessa”. 

Alla prima partita, pronti via e 90 minuti in marcatura su Baggio. Se lo ricordava? 

“Eccome, impossibile dimenticarlo. Fu il primo assaggio di cosa era il calcio italiano. Per me era come essere catapultato in un mondo nuovo”. 

Dopo due anni a Cagliari, la cercarono in tanti. A spuntarla fu la Roma. 

“Ricordo il primo mese, fu tutto molto strano. I tifosi ci contestarono a Trigoria dopo l’uscita dalla Coppa Italia. C’erano gli elicotteri, i furgoni della polizia, pattuglie ovunque. Scene da far west”. 

E pensare che dopo 8 mesi siete diventati campioni d’Italia… 

“Una giornata memorabile. Le racconto questa: il giorno di Roma-Parma c’era così tanta tensione che io, prima della partita, abbracciando il mio ex compagno Mboma, scoppiai a piangere. Ero agitatissimo”. 

I tifosi, poi, a pochi minuti dalla fine rischiarono anche di rovinare tutto. 

“Una cosa assurda, Capello era inferocito. Aveva paura ci facessero perdere la partita a tavolino a causa dell’invasione. Però al fischio finale fu uno spettacolo. Ricordo che in un attimo il campo si era riempito di gente, una marea giallorossa. Persone che piangevano, altri che staccavano ciuffi d’erba dell’Olimpico. Poi il Circo Massimo, due milioni di tifosi, tutti a cantare. Raccontarlo mi mette ancora i brividi”. 

Uno scudetto diverso da quelli vinti e poi revocati con la Juventus? 

“Diverso sì, ma non meno importante. Sento miei anche quei due campionati, noi abbiamo vinto sul campo. Eravamo i più forti e lo abbiamo dimostrato dall’inizio alla fine”. 

Prima menzionava Capello. È l’allenatore a cui deve di più?

“Assolutamente sì, gli devo tantissimo. È stato lui a darmi fiducia e insieme abbiamo vinto tanto tra Roma e Torino. E dovevo seguirlo anche al Real Madrid dopo Calciopoli: ci furono un paio di incontri, volevano me e Cannavaro. Presero solo Fabio”. 

Capello la fece avvicinare anche all’arte. Come andò? 

“Sì, mi invitò a una mostra, anche lui è un grandissimo appassionato. Quando ho smesso di giocare mi ci sono dedicato molto, avevo anche aperto una galleria d’arte a Milano”. 

A proposito di Capello e del suo trasferimento a Torino, i romanisti le diedero del traditore. Le ha fatto male? 

“È una cosa che ho sempre trovato ingiusta. Il mio ciclo in giallorosso era finito e scelsi di seguire Capello alla Juve. Fino a un mese prima dovevo andarmene ed ero un brocco, poi improvvisamente sarei diventato un traditore?”. 

In carriera non sono mancati gli scontri con i tifosi. A Roma prese una manganellata in testa. 

“Sì, perché non mi sono mai nascosto e ci ho sempre messo la faccia. Non andavo a cena con i capi della tifoseria o con i giornalisti. Ho pagato il fatto di essere un tipo solitario. A Roma giravano tante cose non vere sul mio conto. Sì figuri, io in discoteca mi addormentavo...”. 

Scrissero di un suo incidente con la Ferrari... 

“Una delle tante cose scritte e mai verificate. Sono storie false, oggi avrei smentito con un comunicato sui social. All’epoca abbozzai. Ma non mi interessa parlare di queste cose. Chi mi conosce sa la verità, gli altri parlano a vanvera”. 

Anche a Torino, poi, litigò con un tifoso. 

“A Roma fu molto doloroso, tornai a casa con un bozzo in testa. Credo che quello sia stato l’epilogo della mia storia in giallorosso. Con la Juve, invece, passavamo un brutto momento e nel corso di una contestazione un tifoso mi spinse”. 

Mesi dopo disse che era stato un gesto razzista. 

“Non ricordo se mi riferivo a quel gesto in particolare, ma il razzismo in Italia c’è e c’è sempre stato. Mentre giochi ti urlano di tutto, non siamo mai stati tutelati in nessun modo. E chi fa finta di niente è solo complice”. 

Ha qualche rimpianto? 

“Potessi tornare indietro gestirei meglio la mia immagine. Mi farei seguire di più, comunicherei in maniera diversa. Ma senza compromessi”. 

Torniamo al suo essere un tipo solitario. 

“Da solo sto proprio bene. A Roma andavo pure al cinema da solo. Anche le mostre, le ho sempre viste quando non c’è tanta gente. Mi hanno sempre detto che ero un po’ strano, atipico per essere un calciatore. Forse hanno pure ragione, ma pazienza...”.

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