La Divina Dodi portò la femminilità sulle pedane della scherma. Da dieci anni abita in California e si è appassionata all’ultracycling: "In bici posso correre 4 giorni senza dormire"
Non aveva ancora compiuto 14 anni ed era in pedana, il fioretto impugnato con grazia, ai Mondiali di Buenos Aires. A 16 l’Olimpiade di Mosca 1980: sesta, al cospetto di avversarie che avevano l’età di sua madre. Bella, elegante, dal talento immenso. Sfrontata, per qualcuno capricciosa, di sicuro vezzosa. La treccia che spuntava fuori dalla maschera, poi il taglio corto, anelli e orecchini a iosa, le unghie pittate, gli orsetti di peluche nella sacca a bordo pedana, a portarle fortuna. Quindi le copertine patinate, fino al (breve) matrimonio col calciatore Andrea Manzo. Già primadonna anche se ancora teenager, Dorina Vaccaroni era la Divina Dodi e portò la sua tempesta di glamour e femminilità nel mondo paludato della scherma. E dello sport italiano. Lo ha abitato per un ventennio con la sua dirompente personalità e i suoi esaltanti trionfi, dal titolo mondiale individuale all’oro olimpico a squadre. Poi l’addio, a fine Anni 90, e una nuova, fortissima, passione: l’ultracycling, che coltiva tuttora con maniacale dedizione, un (bel) po’ a San Diego, dove vive dieci mesi all’anno, e un po’ dalle parti di Asiago, il suo buen retiro italiano. Chilometri a go-go, fatica manco a sentirla, che non ce la vedi proprio la Divina Dodi nelle vesti della ciclista estrema, in sella anche per undici giorni di fila, lei che ai tempi danzava leggera su una pedana. "L’ultima avventura — racconta la 61enne veneziana — risale a due settimane fa: Ultracycling Dolomitica, 718 chilometri, 22 passi montani, quasi 20mila metri di dislivello. Ho impiegato poco più di 47 ore. Bella tosta, alla fine il mal di gambe l’ho sentito tutto. Pioggia, freddo, poi caldo... Ma emozioni infinite".
Dorina, senza mai fermarsi per dormire? "Macché, in genere fino a 1000 chilometri riesco a resistere al sonno. E posso stare anche quattro notti senza dormire".

Quando è nata la passione per l’ultracycling?
"Risale ormai a 25 anni fa. Facevo spinning nella mia palestra e ho scoperto subito di avere spiccate doti aerobiche. E pensare che quando facevo scherma avevo spesso i crampi... In principio mi sono dedicata al ciclismo tradizionale, ho pure corso un paio di stagioni in una squadra ufficiale. E ho partecipato anche ai Mondiali Master. Poi ho allungato un po’ il chilometraggio... (ride)".

Al punto che ha già partecipato a quattro edizioni della RAAM, la Race Across America: 5000 chilometri coas to coast dal Pacifico all’Atlantico, più di 50mila metri di dislivello. Parliamone...
"Una corsa incredibile, attraverso 12 Stati. L’ho vinta due volte. Ti prende come nessun’altra. È un viaggio dentro te stesso, una prova di resistenza e resilienza. Ho già messo nel mirino la quinta, che sarà a metà giugno 2026. Con un grande obiettivo. Concluderla in dieci giorni. Finora sono arrivata a undici. Ce la posso fare, io ci credo".
Non ha mai pensato, nel bel mezzo di una RAAM, sotto il sole cocente o un diluvio, a chi glielo facesse fare?
"No, non ho mai avuto momenti critici, non mi sono nemmeno mai ritirata. Anzi, appena finisco una Ultracycling non vedo l’ora di ripartire. In bici mi sento bene. E in pace con me stessa".
Prima della RAAM 2026 ha altri obiettivi?
"Il primo è il Mondiale della 24 ore, in Austria, a metà agosto. Vorrei arrivare a 800 chilometri".
A proposito: quanti se ne sciroppa in un anno?
"Più o meno cinquantamila".

E come fa?
"Mi alleno tanto, a volte esco anche alle 6 e rientro alle 16. Poi insegno scherma e sono mental coach in una palestra a San Diego".
Da quanto vive in California?
"Da una decina d’anni. Prima stavo dalle parti di San Francisco, poi mi sono trasferita a sud perché il clima è migliore. A San Diego sto molto bene. Perché ho scelto gli Stati Uniti? L’Italia, che amo, mi stava stretta. Volevo allenare fiorettisti, ho cresciuto Martina Favaretto (fresca di bronzo ai Mondiali; ndr) ma non ho più potuto seguirla perché avrei dovuto avere il diploma magistrale. Assurdo. Così sono andata in Svizzera. E poi in California. Dove mi hanno accolto benissimo. Da quest’anno ho anche la cittadinanza americana, pur mantenendo il passaporto italiano".
Ha lasciato la scherma a 30 anni, eppure avrebbe potuto raccogliere ancora un po’ di soddisfazioni.
"La scherma è uno sport fantastico, ma non mi bastava. Avevo il fuoco dentro, non ne potevo più di stare chiusa in una palestra. E tutto quello che volevo vincere, lo avevo già conquistato".

Si dice che fosse un atleta difficile da gestire.
"Sono sempre stata schietta. Non so se questo mi sia costato, forse un po’ sì, ma non mi importa: non avrei mai rinunciato a dire le cose come stanno".
Era la favorita del c.t. Attilio Fini, che la lasciava dormire in stanza da sola.
"Volevo stare per conto mio, senza per forza avere in stanza una compagna, con cui magari non c’era feeling. E che era pure una mia avversaria. Sì, Fini mi dava carta bianca. L’importante era che io conquistassi medaglie. L’invidia delle altre? Forse perché ero popolare. Fa parte della vita, non me ne è mai fregato molto".

Le pesavano la popolarità, le attenzioni, le copertine? Ha portato la femminilità in pedana: oggi, in era social, spopolerebbe...
"No, non sono stata mai condizionata. Ero perfettamente a mio agio".
A chi deve dire grazie per le vittorie in pedana?
"Ai miei genitori, innanzitutto. E al maestro Di Rosa, il mio mentore".

Le sue figlie l’hanno seguita in California?
"Nooo. I figli si mettono al mondo, si aiutano a crescere, ma poi devono volare via da soli. E così hanno fatto Jessica, che ha 38 anni, e Annette, che ne ha 26. Io non sono la mamma chioccia".