Gianluca Merone sabato combatte a Milano (Taf 9) e la sua storia è l'esempio di cosa può dare lo sport a chi non ha nulla. "Da ragazzino passavo le giornate su una panchina, lasciai la scuola, poi..."
Gianluca Merone fa il pugile professionista, si muove bene, ha una bella castagna, è divertente da vedere perché va sempre all'assalto anche a costo di rischiare. Ha solo 23 anni e non sa ancora se diventerà un atleta di alto livello oppure no, però è già l'emblema di quello che lo sport sa fare: prendere una persona e dargli una speranza. Gianluca non ne aveva, oggi ha praticamente tre lavori: quello sul ring (combatte sabato sera a TAF 9 al Centro Pavesi di Milano contro Simone Bono, categoria super welter), operaio in cantiere, padre. La sua storia parte da Baggio, quartiere popolare alla periferia ovest di Milano.
Come hai iniziato?
"Per caso. Avevo 15 anni, stavo insieme a un gruppetto di sbarbati nel mio quartiere, non facevamo niente dalla mattina alla sera. A Baggio c'era un educatore che un giorno viene da noi e fa: 'Invece di stare sulle panchine a farvi le canne tutto il giorno, fatevi trovare qui giovedì. Vi porto a fare boxe e poi vi riporto indietro'. Io? Boh. Ma ero un po' cicciottello, poteva essere l'occasione per buttare giù qualche chilo".
E così ti sei innamorato della boxe.
"Ma va, innamorato no. Però sentivo una cosa dentro che mi faceva continuare. La boxe mi piaceva anche se non ero proprio nato pugile, mi sentivo goffo e scoordinato. Poi un giorno ho sentito uno youtuber che raccontava la storia di Rocky Marciano..."
E?
"E mi è rimasta dentro: anche lui ha iniziato per caso, non era giovanissimo, era piccolo per la categoria e dicevano che non era cosa sua. Se lui è diventato una leggenda, mi dicevo, io posso imparare a tirare due colpi. Mi divertivo, ero preso bene, poi un giorno l'educatore ci chiamò e ci disse che il progetto non c'era più: avevano incendiato il centro sociale dove ci allenavamo. Avevo appena finito la terza media, e lasciai la scuola. Una cosa naturale, tutti i miei amici lo facevano".
Cosa volevi fare?
"Niente. Non avevo ambizioni, quello che capita capita mi dicevo, basta che in qualche modo si campa. Il futuro lo vedevo come un enorme punto di domanda. Poi mio padre un giorno mi ha chiamato e mi ha fatto un discorso. 'Hai 15 anni, se non vai a scuola non puoi stare a fare niente tutto il giorno. Da domani vieni in cantiere con me". È stato il primo grande insegnamento che ho ricevuto"
Ovvero?
"La cultura della fatica. Quelli della mia vecchia compagnia hanno fatto tutti una brutta fine: chi è diventato tossico, chi è finito in galera... Ecco, devo dire grazie a mio padre se quel mondo l'ho frequentato ma senza mai farne parte. La mia vita diventò cantiere, casa, cantiere, casa, la monotonia pesava. Così un giorno mi sono iscritto a una palestra di pugilato in zona, giusto per sfogarmi. E uno che si allenava con me mi ha detto che conosceva uno che se volevo poteva farmi combattere. E lì ho visto il mio sogno farsi un pochino più vivo".
Qual era questo sogno?
"Combattere, appunto. Fin da quando ho iniziato se uno mi chiedeva cosa sognavo rispondevo combattere. Ma lo vedevo come si vede una stella, una luce che non puoi raggiungere. Quando quel tipo mi disse quella cosa non ci pensai, dissi subito sì".

Te lo ricordi il primo incontro?
"Certo. Debuttai contro uno che conoscevo, ci avevo fatto sparring 3-4 volte e mi aveva sempre dato un sacco di botte. Dentro di me pensavo: "Debutto facile....". Ma mi stavano dando un'occasione, non mi sarei mai perdonato se l'avessi buttata via. Entrai sul ring con una foga bestiale, e stavolta gliele ho diedi io, un incontro a senso unico. Quando l'arbitro mi alzò il pugno mi resi conto che per la prima volta nella mia vita ero davvero soddisfatto di me stesso"
Lì hai capito che la via della boxe era quella giusta?
"Mi ha dato una sorta di certificato morale: ce la posso fare. Da dilettante ho perso tanto, ma dalle sconfitte ho sempre portato a casa una lezione. Se perdi poi psicologicamente stai male, non ci raccontiamo favole. Tutto sta a ricominciare dopo".
E il lavoro?
"Proseguiva, e prosegue. Da quando sono adolescente la mia giornata è sempre la stessa: sveglia presto, cantiere, palestra e a casa. Avevo un motivatore, era mia madre: 'Continua, i sacrifici da qualche parte ti porteranno', diceva. E poi mio padre.. magari dovevamo finire un lavoro per le otto, lui sapeva che dovevo andare ad allenarmi e alle sei faceva "Gianlù, vai, qui finisco io". All'epoca era un gesto a cui non davo peso, oggi che sono adulto invece capisco cos'ha fatto"
Cos'ha fatto?
"Sapeva quanto ci tenevo, mi vedeva che almeno un paio di volte alla settimana mi andavo a correre all'alba prima di attaccare al lavoro. Era la prima volta che mi vedevano interessato a qualcosa. Hanno visto che la boxe mi ha cambiato, e mi hanno assecondato. Mi sono fatto un gran culo per diventare un pugile, ma posso dire di esserlo diventato grazie a loro".
Perché combatti?
"Perché ho sempre fatto una vita di merda, in un quartiere dove non c'è niente e dove l'unica prospettiva è stare buttato per strada. La boxe mi ha offerto una via di fuga. A fine giornata entro in palestra e sono contento, mi dico 'Finalmente'. Nella vita sembra sempre che sei sotto l'ombra di qualcuno, quando combatto invece sento accendersi i riflettori su di me, è il mio momento"
Oltre a una via di fuga, cos'altro le ha dato la boxe"
"Mi ha insegnato che ognuno ha un valore dentro di se, tutto sta a trovare come esprimerlo. E poi disciplina, puntualità, serietà, rispetto. Senza nulla togliere ai miei genitori, questo sport mi ha insegnato a stare al mondo. E non solo, ora c'è anche Rocco"
Ancora Marciano?
"No, mio figlio, appena nato, l'ho chiamato come lui. Prima ero scettico sull'amore e sulla famiglia, quando è arrivato ho provato un'emozione che non si può spiegare. Mi ha dato anche lui qualcosa, il senso della responsabilità, e spero di potergli essere un giorno da esempio, sia sportivo che umano. E poi ho una compagna che mi capisce e mi sta vicino, non mi fa pesare il tempo che tolgo alla mia famiglia per darlo alla palestra".
Intanto è anche passato professionista, non male...
"Ho sempre voluto farlo perché la mia boxe è più adatta a questo contesto che a quello dei dilettanti: qui si calcola meno, i guantoni sono piccoli e la forza del colpo conta di più. Ma non ho mai voluto match facili. Non ho niente contro chi si costruisce un record contro gente pagata per perdere, ci sta, però io non l'ho mai voluto fare. Visto tutto quello che sacrifico per la boxe, voglio mettermi alla prova. E poi è anche questione di soldi, non giriamoci attorno: i match coi mestieranti sono pagati poco, e io ho fatto questo passo anche per le borse. Vorrei guadagnare di più, riuscire a sposarmi, vivere meglio".
Aspirazione legittima. E la passione?
"Quella viene sopra tutto: non voglio un record di 10-0 fatto di incontri finti, voglio vedere dove posso arrivare. Sono una persona molto autocritica, quando vinco magari penso che è stato un colpo di fortuna, penso a cosa avrei potuto fare meglio. Anche la mia ragazza me lo dice: 'Sempre a lamentarti, ma quante paranoie ti fai'".
Sabato affronti Simone Bono, che un mestierante non è...
"Infatti lo apprezzo tanto, ha più esperienza di me da pro' e ha sempre fatto match veri, tosti. È un duro perché ha affrontato i duri e non è mai andato giù. E sono contento di poter affrontare uno del genere, se lo batto è un altro gradino verso il mio sogno: il titolo italiano"
Gradino dopo gradino, hai mai pensato di non farcela?
"Un pugile è un essere umano, come tutti ho i miei momenti no. Magari va male qualcosa in cantiere, oppure uno sparring o una seduta di guanti non va come voglio e mi chiedo dove sbaglio e non mi do una risposta. 'Mangio pulito, riposo, faccio tutto come devo farlo, e non va bene, che sta succedendo?', è il tarlo che ho in testa. Questa cosa mi porta dei crolli pazzeschi, un'instabilità che a volte fatico a gestire, sento il mondo addosso. Il mio salvagente è la mia compagna, che mi fa riflettere e capire che è una cosa passeggera. Ho imparato a pensare che senza la boxe la mia vita sarebbe vuota, non avrebbe senso, mi sentirei un perdente".
Cos'è un perdente e cos'è un vincente per te?
"Anche se non arrivi dove vorresti, puoi essere comunque un vincente se hai dato il mille per mille ogni giorno, senza mai mollare un centimetro. Non ce la fai? Non importa, non hai risparmiato sudore e non hai rimpianti"
Hai mai paura?
"Sai, io mi sminuisco, a volte non mi sento all'altezza ma credo sia una cosa umana. Poi metto i guantoni e mi sale quel fuoco dentro che compensa tutto. La vera paura che ho è quella di immaginarmi a 50 anni a dire 'Cazzo, faccio un lavoro e una vita che fa schifo'. Cioé quello che succederebbe se per caso abbandonassi la boxe adesso. Per questo non vorrei mai avere il rimpianto di aver potuto fare qualcosa in più e non averlo fatto".
Facciamo un salto nel futuro allora. Come ti vedi?
"Al di là di soldi e vittorie, la mia ambizione è svegliarmi ogni giorno felice di quello che faccio, magari respirare ancora l'aria della boxe, vivere di quello. E magari fare quello che è stato fatto a me, cioè prendere dei giovani che vivono in un contesto senza prospettive e farli venire in palestra. Mi gira che adesso la boxe è diventato uno sport per ricchi, le palestre costano un botto e di pugili con la fame vera ne escono pochi. Eppure se vieni nel mio quartiere ti faccio vedere quanti ragazzi ci sono che non fanno niente, e non possono fare niente"
Il tuo quartiere, Baggio.
"È molto grande, c'è di tutto, pure la gente coi soldi e le villette con le piscine. Ma le strade da dove vengo io sono abbandonate, nei palazzi gli ascensori non vanno, le scale sono strette e scassate e se apri uno stanzino trovi i tubi che perdono a litri. Un rione popolare, palazzi di nove piani, ci si conosce tutti e la gente conosce me. Non voglio dire che sono un esempio perché non mi va di sembrare egocentrico, ma so che tutti sono fieri di me. La settimana scorsa ho fatto una videochiamata con un amico in carcere, s'è fatto fare un tatuaggio col mio nome. Sento tanto sostegno, me ne sono andato ma sono uno di loro. È casa"
Se vinci cosa fai?
"Innanzitutto una bella mangiata, sono a dieta da un sacco di tempo... E poi, che vinca o perda, mi prendo una settimana di paternità e mi godo la famiglia. Me lo merito io, e se lo meritano loro che non mi vedono mai. Stacco da tutto, anche dall'allenamento, al massimo una corsetta la mattina. So già che se perdo vorrei andare in palestra già il giorno dopo più incazzato di prima, ma so anche che devo ridare alla mia famiglia un po' del tempo che le ho tolto. All'incontro ci sarà Rocco a vedermi per la prima volta, vorrei farlo salire sul ring. Dopo una vittoria, magari"