La sua doppietta ha regalato la salvezza al suo club e mandato i rossoneri in Serie D: "A 20 anni sono fuggito dall’Argentina senza vestiti, soldi e documenti. Il pallone mi ha dato la felicità"
Francesco Albanesi
21 maggio - 11:39 - MILANO
Mentre la palla viaggiava verso l’incrocio dei pali, Juan Ignacio Molina ha congelato il tempo, riavvolgendo la memoria a quando, a 20 anni, fuggiva dall’Argentina senza vestiti, soldi e documenti per trovare felicità in Europa. Ha cominciato dalla Spagna, sdoppiandosi anche come cameriere per arrotondare a fine mese, e ha continuato in Italia, partendo dall’Eccellenza e arrivando fino in Serie C. Sabato scorso ha spedito il Milan Futuro in Serie D con una doppietta nel giro di un quarto d’ora, regalando alla Spal una salvezza tanto desiderata: “La cosa più bella sono stati i messaggi dei tifosi, a cui non ho ancora finito di rispondere. In tantissimi mi hanno scritto che sono il loro eroe”.
Non poteva essere altrimenti, non crede?
“Sono cose che ti rimangono dentro. C’è grande attaccamento alla maglia in questa società: quello che più mi ha stupito è stato vedere i tifosi che tifano soltanto la squadra della loro città. La Spal è unica in questo. Dopo la partita, dentro lo spogliatoio, abbiamo riso, scherzato, ci siamo lanciati ciabatte… Non finirò mai di ringraziare i miei compagni per avermi accettato fin da subito nel gruppo-squadra da quando sono arrivato”.
Secondo gol ai raggi X: sterzata alla Bobo Vieri e sinistro all’incrocio dei pali. Il primo flash che le viene in mente?
“Io volevo metterla dentro a ogni costo. Anche con un rimpallo. Volevo la salvezza. Ho ripensato a tutta la mia infanzia, ai sacrifici, alla fuga da casa per trovare fortuna in Europa. E poi quelle urla dei tifosi della Spal, wow. Sono diventato matto”.
La sua storia si intreccia col destino: arriva in prestito lo scorso gennaio alla Spal, debutta (perdendo) contro il Milan Futuro e quattro mesi dopo decide la sfida playout proprio contro i rossoneri. È il suo picco di carriera?
“Non lo so, ma di certo so quanto ho lavorato e sacrificato per arrivare dove sono adesso. Sicuramente è un momento importante per me, ma non mi accontento. Raggiungere la salvezza con la Spal, che merita ben altri campionati, è stata una grande soddisfazione. Ringrazio tutti, sia i tifosi che mi sono stati vicini mandandomi tanti messaggi, sia la società per avermi dato fiducia a gennaio, oltre ai miei compagni e a tutto lo staff”.
Una doppietta che sa di redenzione dopo quel rosso contro l’Entella, valso tre giornate di squalifica.
“Sicuramente. Sono arrivato qui a Ferrara con tantissima voglia di fare. Contro l’Entella ho giocato da titolare e volevo subito dimostrare, forse la troppa esuberanza mi ha fregato con quel gesto (manata al volto di un avversario, ndr) che per me non era da rosso. Purtroppo, mi è costato tre giornate di squalifica. Sono stato male nei giorni seguenti, pensavo di aver buttato via tutto l’entusiasmo che avevo”.
Ma ha reagito alla grande…
“In quelle tre settimane di squalifica mi sono allenato tanto. Io sono fatto così, nei momenti di difficoltà do sempre il massimo e pian piano mi sono guadagnato il posto”.
Ora farà ritorno alla Vis Pesaro, ma sul futuro ha le idee chiare?
“Intanto stacco e vado in vacanza. Poi ci sarà tempo per decidere il mio futuro. Sicuramente una parte del mio cuore rimarrà qui a Ferrara. Mi piacerebbe rimanere, ma voglio prendermi del tempo anche per decidere con la mia famiglia”.
Molina, riavvolgiamo il nastro. Da dove inizia la sua vita?
“Sono nato a Rosario, la città del calcio. Fare il calciatore è sempre stato il mio sogno. Ho avuto la fortuna anche di giocare nel Rosario Central, la squadra del mio cuore: da piccolo andavo ogni volta allo stadio”.
Perché la scelta di affermarsi in Italia?
“In tanti non conoscono la mia storia. Sono venuto qui in Europa per cercare un futuro migliore, in Argentina le condizioni non erano ottimali. La mia famiglia non mi ha fatto mai mancare nulla, ma volevo mettermi in gioco, guadagnando i miei soldi e aiutare i miei genitori e i miei amici più cari a vivere meglio. A 20 anni ho preso la mia valigia, vuota, e sono partito senza niente: né soldi, né documenti, né vestiti. Il biglietto aereo sono riuscito a prenderlo grazie a un prestito di un amico. Sono partito dalla Spagna, giocando per l’Atletico Bembibre, e sono arrivato qui in Italia, facendo la scalata dall’Eccellenza alla Serie C”.
Voleva dare una sterzata alla propria vita.
“Esatto. Volevo sistemarmi in Europa anche per la cittadinanza italiana, il mio trisnonno era italiano. Non avevo idea che il calcio potesse diventare un lavoro a tempo pieno, mettevo davanti la mia felicità e serenità. Quando giocavo in Spagna facevo il cameriere per arrotondare, ma ho sempre sperato di vivere grazie al pallone”.
Chi sognava di emulare da piccolo?
“Batistuta e Marco Ruben, un idolo per noi di Rosario. Nel calcio di oggi non posso non dire Lautaro Martinez, che giocatore. Pensi che ci ho anche giocato contro quando ero in Argentina. Il suo attaccamento alla maglia, la sua leadership, la sua forza mentale… tutte qualità che gli invidio profondamente”.
Cosa le ha lasciato il calcio dalle sue parti?
“In Argentina la prima cosa che ti insegnano è l’atteggiamento: quello non deve mai mancare. La voglia di non mollare mai anche nelle difficoltà. Il carattere, durante le partite, ci deve sempre essere. Noi argentini ce l’abbiamo nel Dna. E ancora: fare una corsa in più per il compagno, stringere i denti anche quando non siamo al meglio della condizione fisica. Un po’ come ha fatto Lautaro contro il Barcellona. Noi siamo questo. La maggior parte dei giovani argentini nascono nel “potrero”, il calcio di strada praticato in quartieri poveri. L’unica cosa che hanno è un pallone: una valvola di sfogo per stare meglio con sé stessi. Da qui deriva la voglia di dare tutto, non solo per il calcio ma per qualunque altro sport”.
Che rapporto ha con la famiglia?
“Sono molto legato ai miei genitori e alla mia fidanzata. Loro sanno quanto ho sofferto per arrivare fino a qui. Mi hanno sempre sostenuto, altrimenti non sarei diventato quello che sono ora. Mamma e papà li sento spesso, mi chiamano, mi chiedono come sto, mi vogliono un gran bene. Hanno avuto molta paura quando sono andato via di casa, ma ora sono fieri di me. Un’altra persona che mi è sempre stata vicina è mio zio, che è anche il mio preparatore. Mi ha sempre fatto sentire un professionista, sia in palestra che in campo."