Malesani: "Nel 2002 potevo andare al Milan, poi il crollo. Oggi produco vino e gioco a tressette"

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L'ex allenatore si racconta: "Ero direttore in una multinazionale, mollai tutto per diventare tecnico. Mi chiamarono i rossoneri, ma il mio Verona crollò. Fu la svolta della mia carriera. Il mio Parma era pazzesco, poi non ho più ritrovato le stesse emozioni. Dopo un periodo di rigetto ho ricominciato a seguire il calcio"

Andrea Schianchi

Giornalista

22 agosto - 23:52 - MILANO

Primi mesi del 2002, Alberto Malesani siede sulla panchina del Verona. La squadra gioca bene, è settima in classifica e si fa vivo il Milan. "Proprio così, i rossoneri erano guidati da Carlo Ancelotti che aveva sostituito Terim. Parlo con il dottor Galliani che mi dice: 'La seguiamo. Se nel girone di ritorno fa come nell’andata, ci risentiamo a fine stagione'. Purtroppo, invece, il mio Verona crollò e al termine del campionato ci fu la retrocessione. Io non andai più al Milan, Ancelotti restò in rossonero e, l’anno successivo, vinse la Coppa dei Campioni a Manchester. Il destino ha voluto così. Ma non ho rimpianti. Peccato, però, perché del Milan ero tifoso fin da bambino: unico milanista di San Michele Extra, il paese alle porte di Verona dov’era nato anche Mariolino Corso. Gli altri, tutti interisti. Io, invece, godevo quando vedevo giocare Rivera". 

Malesani, quel mancato passaggio al Milan nel 2002 fu la svolta della sua carriera? 

"Ci ho riflettuto spesso e direi di sì. Da allora in poi il mio percorso non è stato così positivo come negli anni precedenti. Sono comunque soddisfatto, non sto lì a piangermi addosso". 

Tre anni prima, nel 1999, sulla panchina del Parma, nell’arco di cento giorni vinse Coppa Italia, Coppa Uefa e Supercoppa Italiana. Incredibile. 

"Una cavalcata indimenticabile. Avevamo una squadra pazzesca: Buffon in porta; Thuram, Sensini e Cannavaro in difesa; Fuser e Vanoli sulla fasce; Dino Baggio, Boghossian, Veron a centrocampo; Crespo e Chiesa in attacco. Giocavamo un calcio moderno, spettacolare, tutto pressing e sovrapposizioni. Purtroppo non arrivammo allo scudetto, ma forse tutto l’ambiente, all’epoca, non era attrezzato per un’impresa simile". 

L’anno prima, alla Fiorentina, fece innamorare i tifosi. 

"E i giocatori, da Rui Costa a Batistuta. Quando ebbi qualche discussione con il presidente Cecchi Gori lo spogliatoio si schierò dalla mia parte. Andammo a vincere a Parma, il cavalier Calisto Tanzi rimase impressionato dal gioco della mia Fiorentina e il giorno dopo mi convocò nel suo ufficio a Collecchio per ingaggiarmi. Ero libero, dissi subito di sì". 

Una carriera costruita sul merito, la sua. 

"Nessuno mi ha mai regalato nulla. Ho cominciato con il Chievo, ho fatto la gavetta, mi sono licenziato dalla Canon dove avevo un ruolo da dirigente per la mia passione: il calcio. Da lì alla Fiorentina dopo che, per tre mesi, ero stato seguito da Antognoni e dal d.s. Cinquini. E quindi il Parma, sempre perché avevo impressionato attraverso il gioco". 

Dopo quell’inizio folgorante la frenata fu brusca. Perché? 

"Sinceramente non lo so. Ho cambiato tante squadre, ne ho allenate undici in Italia, ma non sono mai più riuscito a trovare quell’alchimia necessaria a raggiungere il successo. I miei metodi non sono mai cambiati, credo si tratti di una questione di emozioni. Se fossi andato al Milan, chissà... Vabbè, non voglio pensarci, è acqua passata". 

Restano famose alcune sue conferenze stampa, che oggi si trovano sul web, nelle quali si sfogò con toni piuttosto esagitati. Anche questi dettagli hanno contribuito a frenare la sua carriera? 

"Può darsi, ma di base credo che ci sia il fatto che io non ho mai cercato, e di conseguenza non ho mai avuto, sponsor importanti, non ho mai fatto amicizia con chi contava. Sono stato nel calcio, ma un po’ in disparte. È il mio carattere. Nel lavoro, in tutti i lavori che ho fatto, ci ho messo impegno, rigore, passione e un po’ di sana follia. E sono sempre stato un uomo, e dunque un allenatore, libero. Probabilmente se avessi cantato nel coro, la mia carriera sarebbe stata diversa, ma va bene così". 

Prima manager di una multinazionale, poi allenatore, quindi viticoltore. 

"Altra soddisfazione. Sono riuscito a metter su un’azienda che ora ho ceduto, e ho ricevuto riconoscimenti importanti. Pensi che tutto nacque durante una trasferta di Coppa Uefa. Era la primavera del 1999, con il Parma andammo a Bordeaux e io, alla vigilia, visitai una cantina famosa e ne rimasi affascinato. Da quel momento ho sempre desiderato diventare un produttore di vino, ho comprato un bel pezzo di terra, ho ascoltato i consigli di un enologo e l’impresa è andata in porto". 

Il calcio lo segue ancora? 

"Confesso che avevo avuto un sentimento di rigetto, qualche anno fa. Ma ora mi sono riavvicinato al pallone e lo sa di chi è il merito?". 

No, dica pure. 

"Dei nuovi allenatori che ci sono in Serie A. Mi piacciono, ammiro il loro modo di fare calcio. Parlo di Italiano, di Baroni, di Fabregas. Studio le loro tattiche, io sono un maniaco della tattica, mi tengo aggiornato, penso a che cosa farei io se dovessi affrontarli, a quali mosse sceglierei. È un modo per sentirmi ancora dentro il campo. Ritengo che la scuola italiana degli allenatori sia la migliore al mondo, e dobbiamo tenercela stretta". 

E poi, oggi, che cosa c’è nella vita di Alberto Malesani? 

"La famiglia, gli amici, il golf la mattina e le partite a carte all’osteria tutti i pomeriggi. Mi diverto come un matto a giocare a briscola o a tressette. E sapeste com’è difficile! Faccio anche i tornei, ho raggiunto buoni livelli grazie agli insegnamenti dei miei amici che io chiamo maestri. E dopo, che abbia vinto o che abbia perso, una bella cena in trattoria tutti assieme. Questa, per me, è la serenità".

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