Fabio col suo talento ha avviato la risalita ad alti livelli del nostro movimento
L’applauso che il Centrale di Wimbledon gli ha riservato dopo la straordinaria battaglia persa contro Alcaraz è un’onda lunga che deve per forza toccare i cuori di tutti gli appassionati della racchetta, in particolare di noi italiani: un giocatore con il braccio d’oro di Fognini non nascerà più, e a prescindere da ciò che deciderà Fabio nei prossimi giorni o nei prossimi mesi (già a Roma aveva paventato il probabile ritiro), quando non calcherà più i campi di tutto il mondo, il tennis sarà indubbiamente più povero dal punto di vista tecnico e delle emozioni che può regalare.
predestinato
—
Certamente, nella valutazione di una carriera, accanto ai risultati contano anche i comportamenti, e da questo punto di vista il campione di Arma di Taggia non si è rivelato sempre irreprensibile, ma quando si tratterà di collocare nella storia il rinascimento dorato del tennis italiano nell’ultimo decennio, a Fognini andrà riconosciuto senza dubbio un ruolo fondamentale di stimolo e di guida. Fin da quando aveva 13 anni e prima dell’esplosione di Berrettini e poi di Sinner e Musetti, Fabio ha dovuto convivere con la pesante ombra del predestinato e successivamente di salvatore del nostro tennis. Una posizione scomoda, a cui da ragazzo sensibile che è, sempre rimanendo se stesso mettendoci la faccia anche a costo di critiche feroci, talvolta ha risposto più con reazioni di pancia che con la forza del talento: eppure senza di lui gli anni dell’Italia arrancante dietro le superpotenze si sarebbero rivelati ancora più bui e non sarebbe scoccata la scintilla da cui si è sviluppato il fuoco sacro dell’esplosione azzurra.
apripista
—
La sua vittoria al Masters 1000 di Montecarlo nel 2019, il punto più alto della carriera, dimostrò infatti al nostro mondo tennistico e agli altri giocatori azzurri che si poteva fare, che i risultati di vertice potevano finalmente appartenerci e non rimanere appannaggio soltanto degli altri. Tre mesi dopo sarebbe entrato in top ten, primo italiano dai tempi di Panatta e Barazzutti, un altro enorme impulso al movimento. Per questo dovremo essergli sempre grati, anche se rimane in sottofondo il rimpianto di non averlo visto protagonista, se non a sprazzi, negli Slam, soprattutto al Roland Garros, dove la sua propensione alla terra avrebbe potuto schiudergli prospettive più esaltanti (i quarti del 2011 a Parigi restano il suo miglior risultato in assoluto in un Major). Non va dimenticato però che Fabio è nato nello stesso mese e nello stesso anno di Djokovic e Murray e appena un anno dopo Nadal, trovandosi a navigare per quasi tutta la carriera nel mare della generazione più straordinaria di sempre. E a ogni modo ha battuto Rafa tre volte sul rosso, gli ha recuperato due set di svantaggio agli Us Open in una delle partite più memorabili della storia del tennis italiano, ha sconfitto il n.1 Murray a Roma. E la partita di ieri con Alcaraz è stata la favolosa recita conclusiva di un campione che si farà rimpiangere.