Dalla sceneggiatura ai romanzi, Ezio Abbate: "Oggi la serialità sperimenta poco"

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L'autore e sceneggiatore di successi come 'Suburra' e 'Diavoli' si racconta all'Adnkronos partendo dal suo ultimo libro 'Ti vengo a cercare', 'riscopro il piacere del finale con cinema e romanzi'

La serialità italiana “sta attraversando una fase stantia. Il mercato sembra meno interessato alle idee e si rischia poco”. Con i romanzi e il cinema “sto riscoprendo il piacere di poter mettere fine a una storia. La possibilità di definire il finale sin dall'inizio è incredibilmente liberatoria”. A parlare è Ezio Abbate, sceneggiatore di serie di successo come ‘Suburra’, ‘Curon’ e ‘Diavoli’, ospite del nuovo episodio del vodcast dell'Adnkronos, disponibile sul sito www.adnkronos.com e sul canale YouTube. Dopo aver esplorato un'Italia cruda e senza filtri, Abbate torna alla narrativa con il suo secondo romanzo, 'Ti vengo a cercare', una storia intima e profonda che esplora il tema della guerra, interiore ed esteriore. "La storia parte da Pozzuoli, un luogo apparentemente distante dalla Siria del 2011. È la storia vera di una madre che scopre la radicalizzazione del figlio, combattente straniero contro Assad”, racconta Abbate. “Il paradosso che mi ha colpito è che questa madre e figlio risolvono i loro conflitti solo in un contesto estremo come la guerra”.

Con questo libro “volevo un viaggio in solitaria, assumendomi tutta la responsabilità della scrittura. Nel romanzo, sono scrittore, regista, attore, tutto. E poi l'intimità della storia mi ha permesso di esplorare corde personali. Ho usato la seconda persona singolare, un flusso di pensieri di 230 pagine, per immergere il lettore nella mente della protagonista. Ho adattato la lingua al suo stato d'animo, inizialmente sgrammaticata e ripetitiva, poi via via più raffinata durante il suo viaggio”. Per Abbate, raccontare la guerra significa raccontare la vita di chi resiste: “La guerra è come il nocciolo incandescente della Terra, un inferno necessario alla vita. Raccontarla significa raccontare chi muore, ma soprattutto chi vive e resiste”. E Abbate sente la responsabilità dei messaggi che veicola: “La responsabilità dell'artista è l'onestà. Il politicamente corretto è un limite all'arte. I miei personaggi, come Aureliano Adami di ‘Suburra’, si muovono in zone moralmente grigie. Il conflitto, interiore ed esteriore, è il motore delle grandi storie”.

Dalla televisione al cinema, dal teatro al podcast, la carriera di Abbate è caratterizzata da una grande versatilità: “Mi attraggono le cose che non so fare. Appena penso di aver capito come funziona una cosa, voglio provarne un'altra. Ogni storia ha un suo ‘passo’, che determina il medium adatto”. Abbate quando incontra una storia riesce subito a immaginare la sua forma: “Col tempo ho imparato. È come se infilassi un jack nella storia e la vedessi nella sua dimensione ideale”. E, sullo stato di salute della serialità italiana: “Il mercato sembra meno interessato alle idee originali rispetto a 5-7 anni fa. Si punta su prodotti più generalisti, forse per paura di frammentare il pubblico in nicchie di genere (crime, horror, romance, commedia). Si tende a rischiare poco, anche se questo è un andamento ciclico, probabilmente legato alla situazione economica”.

“Le cose belle esistono ancora, ma si fa più fatica”, dice e cita ‘Adolescence’ come esempio: “Una serie divisiva, che dieci anni fa forse non avrebbe avuto lo stesso impatto. A me è piaciuta, proprio per il suo coraggio. È uno specchio della nostra società, delle fragilità dei genitori di fronte ai figli adolescenti. Forse ha funzionato proprio per questo, perché oggi abbiamo bisogno di specchi, di guardarci dentro, più che di sognare”.

Abbate però non si ferma mai: “Ho un paio di idee nuove per delle serie, una commedia family ambientata in un contesto inaspettato e una dramedy nel mondo della musica. Sono ancora in fase di sviluppo, al momento ferme per via della riorganizzazione in corso nel settore”. Abbate, intanto, confessa di aver riscoperto il piacere di scrivere per il cinema: “Sto lavorando a due film contemporaneamente, e la possibilità di definire il finale sin dall'inizio è incredibilmente liberatoria. Per questo guardo anche molti più film che serie tv, ultimamente, ho bisogno di storie con una conclusione”.

E aggiunge: “Mi piacerebbe tornare a realizzare cortometraggi. In Italia sono visti come un trampolino di lancio, mentre all'estero sono considerati un vero e proprio medium. Raccontare una storia in 15 minuti non è meno significativo che farlo in 90 o in una serie di 360”. Un consiglio ai giovani? “Essere onesti con se stessi. Questo lavoro richiede "sacro fuoco". Se c'è un piano B, si è sulla strada sbagliata”. Infine, il sogno nel cassetto: “Dopo due finali in tre anni, spero che l’Inter vinca la Champions”. di Loredana Errico

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