Da Zverev a Berrettini: quando la testa dice “basta”. Il crollo spiegato dal mental coach

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 quando la testa dice “basta”. Le risposte del mental coach

Quanto accaduto a Wimbledon va ben oltre l’aspetto sportivo: come spiega Marco Valerio Ricci, “c’è un cambiamento culturale in atto. Parliamo dei primi campioni della generazione Z, una generazione con una sensibilità maggiore”

Francesco Palma

5 luglio - 17:14 - MILANO

Invincibili, inossidabili, indistruttibili: è sempre stata questa l’immagine "esterna" degli sportivi, soprattutto quelli identificati come "vincenti". Dei robot programmati per vincere, senza punti deboli, senza cicatrici. Col passare del tempo però si sta disegnando una realtà ben diversa. Anche i campioni parlano delle loro debolezze, dei loro fantasmi, e quanto sta accadendo a Wimbledon ne è un segnale chiaro che va ben oltre l’aspetto sportivo e la raffica di eliminazioni eccellenti al primo turno. Il caso più eclatante è quello di Alexander Zverev, che ha ammesso senza tanti giri di parole di non provare più piacere nel giocare a tennis, ma hanno parlato anche tanti altri: Matteo Berrettini ha detto apertamente di aver bisogno di tempo per riflettere, e anche Jasmine Paolini ha parlato del bisogno di prendersi una pausa. C’è qualcosa di diverso nel tennis, e nello sport in generale, rispetto al passato, come ha spiegato a Gazzetta Active Marco Valerio Ricci, Licensed Master Trainer in PNL, Clinical Hypnosis Instructor e Mental Coach di riferimento per lo sport italiano che dal 2000 affianca atleti e squadre d’élite, tra cui la Nazionale Italiana di Rugby, tenniste del circuito WTA, sciatori di Coppa del Mondo, calciatori di Serie A e numerose promesse giovanili: “C’è un cambiamento culturale in atto, c’è una maggiore sensibilità verso temi come ansia e stressa e una maggiore sensibilità verso il bisogno di essere riconosciuti, quindi al riconoscimento esterno. Questi sono i primi grandi campioni della ‘generazione Z’, una generazione con una sensibilità maggiore e un bisogno di riferimenti che in realtà non ci sono: gli stessi psicologi e mental coach spesso non hanno ancora quel tipo di formazione perché sono studi che stanno uscendo adesso e ci stiamo rendendo conto ora delle maggiori necessità di questi atleti, che vivono comunque dei livelli di pressione di incertezza che sono notevolmente aumentati. Tutto questo porta al manifestarsi di sensibilità – non vorrei usare il termine ‘fragilità’ – che prima non si vedevano: questo è dovuto in parte allo svilupparsi di una capacità di ‘sentire’ diversa, e in parte a una cultura sportiva che comunque è sempre stata legata al dover essere ‘forti’. Come detto, è un passaggio culturale”.

Marco Valerio Ricci, mental coach

Rispetto a prima c’è anche una maggiore tendenza a mettersi in discussione? 

“Mi capita spesso di lavorare con atleti molto giovani e non ancora affermati: vedo tante promesse dello sport che hanno bisogno di un supporto nel sentirsi riconosciuti perché mettono costantemente in dubbio il prossimo passo. Pensano: ‘ok, fino a qui sono arrivato, ho ottenuto dei grandi risultati, ma se domani poi non dovessi confermarmi cosa penserebbero di me? Che cosa realmente sarebbe un indicatore del mio valore? Come faccio a sapere che io valgo?’ Un tempo, ma parlo anche solo di 10 anni fa, questo non accadeva con tale frequenza, è proprio un fattore di cambiamento culturale che si inserisce in una situazione generale di maggior incertezza, tensione, instabilità che viviamo nel mondo. Questo succede anche negli atleti di alto livello: basta una sconfitta al primo turno di Wimbledon per mettere in dubbio tantissimo. Quasi tutti gli atleti di prima fascia che sono usciti presto dal torneo hanno detto cose molto simili: Jasmine Paolini ha detto di aver bisogno di una pausa, di un momento di stacco; Berrettini ha raccontato le sue difficoltà. Anche perché l’essere umano sta perdendo il contatto con i suoi ritmi naturali, c’è una frenesia costante che gli atleti percepiscono”.

Quanto incidono le aspettative in tutto questo? Fin da giovani i ragazzi – ancor di più in uno sport individuale come il tennis – rischiano di essere caricati di tanta pressione, più rispetto al passo. E quando si arriva ad alti livelli questa pressione esplode… 

“Assolutamente sì. C’è tantissima pressione. Per fare un esempio, mi viene in mente quanto sia stato importante per Sinner aver avuto dei genitori che gli hanno dato tanto spazio e tanta libertà di fare e di essere chi voleva. Ci sono altri genitori di tennisti che sappiamo quanto abbiano investito loro stessi sul futuro da atleta del figlio. Pensiamo ovviamente ad Agassi, che ha raccontato tutto nel suo libro, ma anche al padre delle sorelle Williams. C’è tanta pressione anche a livello mediatico, perché cominciano a girare così tanti soldi, così tanto denaro, così tanto indotto che alla fine tutti si aspettano dal professionista qualcosa che di fatto è una proiezione delle aspettative di chi gli è intorno. Pensiamo alla finale del Roland Garros, con Sinner che è arrivato a tre match point dal battere Alcaraz e poi ha perso dopo una delle partite più belle che ho visto negli ultimi anni: la delusione sportiva è ovviamente normale, si va in campo per vincere, ma dall’altra parte ci sono tante proiezioni che vengono fatte dall’ambiente e che sono legate all’idea di un’infallibilità che in realtà non ha nulla a che vedere con lo sport. Chiunque faccia sport sa che una volta scesi in campo qualcuno vincerà e qualcuno perderà, a maggior ragione nel tennis dove non esiste il pareggio. Di fatto l’atleta fin da quando inizia a giocare è allenato anche a perdere, e perdere non è un fallimento a meno che non lo si viva come tale, ma questo dipende non tanto dall’atleta ma molto più dall’ambiente intorno a lui”.

Sascha Zverev ha detto: “Mi manca la gioia in tutto ciò che faccio. Anche quando vinco non provo felicità”. Come si arriva a questo punto? Cosa porta ad avere quasi una repulsione verso uno sport sul quale hai costruito la tua vita? 

“La riflessione di Zverev è molto interessante. A prima vista ti trovi di fronte a una persona che sta facendo qualcosa che ama, sul quale ha costruito la sua vita, che sta avendo successo, e ti chiedi quindi come sia possibile. Eppure c’è stato un cambiamento anche nella visione del mondo, rispetto a una cultura nella quale dovevamo lavorare per vivere: hai fatto questa scelta, portala fino in fondo, non ci cambia, non ci pensare e adattati alle regole del gioco. Il punto è che oggi non è più così: un atleta come Zverev potrebbe anche vivere di rendita se dicesse ‘basta’, e quindi le motivazioni sono diverse. Poi può esserci, come dicevamo prima, anche un fattore emotivo legato alle aspettative: di Zverev si è sempre detto che avrebbe vinto tanti Slam, poi si è ritrovato davanti due mostri come Alcaraz e Sinner che stanno lasciando le briciole e di fatto lo hanno relegato a un ruolo da numero 3, 4, non di più. Tutto questo può comportare delle difficoltà a trovare le motivazioni: perché la motivazione principale è sempre la felicità, e se non sono felice chi me lo fa fare? Ciò che bisogna chiedersi è ‘cosa mi dà la felicità?’. Probabilmente nel suo programma mentale a questo punto la felicità non è più nel giocare un’infinità di tornei, stare sempre in giro per il mondo ed essere sottoposto a tantissime pressioni”. 

E le frasi del fratello Mischa (“La vita è difficile per i bimbi in Africa, non per lui") fanno invece capire quanto sia ancora difficile parlare di depressione… 

“Al di là dell’uscita del fratello, che magari poteva avere anche un intento diverso se fatta privatamente ma che invece resa pubblica diventa un’espressione poco felice, di fatto quello che va visto è che l’essere umano sta perdendo contatto con sé stesso. Ciò che stanno dicendo tutti questi ragazzi è che stanno vivendo dei livelli di pressione, stress, frenesia, attivazione continua tali da chiedersi ‘perché lo faccio?’. Spesso questi problemi derivano proprio dal non aver trovato o non saper trovare un proprio ‘perché’ che vada al di là della propria routine: se penso ‘sono un tennista, devo allenarmi, giocare dei tornei, fare una serie di viaggi, portare un certo numero di punti e ottenere un certo numero di vittorie e così sarò felice’ è logico che quando tutto questo non riesce non c’è un’alternativa alla felicità. Anche perché questa è una felicità esterna, e quando facciamo qualcosa che è ‘esterno’ da noi è difficile mantenere la motivazione. Quando si lavora nell’ambito del coaching mentale con gli atleti la prima cosa che si fa è concentrarsi sulla respirazione, riconnettendosi con il sé e con il corpo attraverso la respirazione per ritrovare motivazioni più grandi. Non è una questione spirituale ma molto concreta: i processi di consapevolezza del nostro corpo passano attraverso la respirazione, la conoscenza di sé e delle proprie dinamiche più profonde, e tante volte si lavora sulla respirazione solo dal punto di vista fisico e non meditativo, quella meditazione che permette di ritrovare un significato più profondo. Prima ho citato Agassi, che dopo essere crollato ed essere arrivato ad odiare il tennis ha ritrovato le proprie motivazioni e il proprio significato: quando parlo di motivazione parlo di ‘motivo per agire’, un motivo per essere al mondo. Ciò che porta risultati nel medio-lungo periodo è aiutare l’atleta a ritrovare il proprio perché più profondo”.

Italy's Matteo Berrettini reacts as he plays against Poland's Kamil Majchrzak during their men's singles first round tennis match on the first day of the 2025 Wimbledon Championships at The All England Lawn Tennis and Croquet Club in Wimbledon, southwest London, on June 30, 2025. (Photo by Glyn KIRK / AFP) / RESTRICTED TO EDITORIAL USE

Berrettini ha detto “Mi si è rotta anche la testa”. Quanto le continue delusioni sportive e una pressione esterna feroce – considerando che spesso è stato criticato anche su aspetti che riguardavano la sua vita privata – possono incidere? 

“È decisamente dura, anche perché lui è arrivato al suo miglior anno nel 2021 dopo una crescita costante. Era il primo degli italiani, poi è arrivato Sinner a mettergli il fiato sul collo e lì sono entrati in gioco tanti fattori: ovviamente dall’esterno non possiamo sapere cosa è successo di preciso, ma sicuramente per Berrettini sarebbe importante un lavoro di reset, di azzeramento e ricostruzione da un punto di vista mentale. Il discorso che facevamo prima sul ritrovare la gioia, il divertimento, la liberazione. Dobbiamo ricordarci che quando parliamo di tennis parliamo di un gioco, e l’essere umano gioca per imparare e non per ottenere un risultato, poi gradualmente abbiamo dato più valore a questo che all’apprendimento. Se guardiamo i bambini quando giocano stanno imparando qualcosa di nuovo, ad andare oltre i propri limiti, si stanno evolvendo, e il gioco deve essere evolutivo”. 

Quanto conta costruire un rapporto ‘sano’ con la sconfitta? 

“Mi viene in mente il modo in cui Sinner ha fatto suo il credo del ‘o vinco o imparo’, ha sempre raccontato di come le sconfitte siano sempre state per lui un modo per apprendere cose nuove, per migliorare. Bisogna guardare anche alle radici culturali: Sinner è un uomo di montagna, e la potenza e la maestosità della montagna richiede a chi ci vive una stabilità, una centratura, una comprensione del fatto che siamo in realtà piccoli. La cosa che più colpisce di Sinner è la consapevolezza con cui osserva e affronta le avversità: si rende conto che c’è qualcosa di più forte di lui e semplicemente lo accetta e continua per la sua strada. Questo può essere scambiato per imperturbabilità, anche invincibilità tornando al discorso di prima, ma in realtà non è così: è semplicemente la consapevolezza del fatto che tutto passa, che tutto scorre. Le avversità ci sono, arrivano, ma il passato non si può cambiare, possiamo semplicemente scegliere come vivere il presente, per quanto possa essere a volte doloroso e fastidioso. Non significa girarsi dall’altra parte e far finta che il problema non esista, anzi, si può agire per minimizzarne l’impatto, ma poi bisogna accettare la sua esistenza e lasciare che il tempo faccia il suo corso, fidandosi del processo. Sinner si affida ai processi, progetta, si crea un team di aiuto e di supporto, ma poi una volta che ha scelto prosegue su quella strada, anche sorprendendosi lui stesso del risultato come quando dopo Roma disse di non aspettarsi di essere a quel livello dopo tre mesi fermo. È una cosa che si può insegnare e allenare, ma è un esercizio quotidiano: dobbiamo creare le condizioni affinché si crei questa situazione in cui la persona può avere una percezione diversa del proprio posto nel mondo”.

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