Con il Gasherbrum I, l’alpinista di Valfurva ha completato la salita delle 14 montagne più alte della Terra: «Sono felice ma anche stufo. In questo ambiente troppe polemiche e cattiverie»
La telefonata arriva una domenica pomeriggio da Campo 3: «È finita! È finita!». La voce rotta dalla fatica, il fiato corto dei 7000 metri spezzato da continui colpi tosse, Marco Confortola è impaziente di condividere il suo entusiasmo. «Sono cotto, sono arrivato distrutto qui in tenda... Ci risentiamo dal Campo Base», perché la scalata di un Ottomila termina veramente solo quando si conclude la discesa. Con la conquista del Gasherbrum I (8.080 m saliti senza ossigeno supplementare), undicesima montagna più alta della Terra, il cinquantaquattrenne alpinista di Valfurva ha chiuso il cerchio, completata la “collezione” dei 14 Ottomila del pianeta.
Dall’Everest nel 2004 al G1 lo scorso 20 luglio: 21 anni di imprese, fallimenti, tragedie... Che sensazione è aver finito la corsa agli Ottomila?
«Una liberazione. Sono felice ma anche molto stanco, stufo di questo mondo. Ti dico solo che durante questa spedizione ogni giorno pensavo: questa è l’ultima volta».
A cosa ti riferisci?
«A tutto quello che ruota intorno all’alpinismo himalayano. Polemiche, cattiverie, gente che getta fango sui social. Aveva ragione Umberto Eco: i social danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar».
Hanno messo in dubbio la tua salita al Nanga Parbat del 2023.
«Per fortuna quell’anno, prima di partire, mia moglie mi regalò un Garmin. Io sono negato con la tecnologia, ma me lo misi nello zaino. Arrivato sulla cresta sommitale c’era tempesta e io non trovai il famoso tubo di Messner con il biglietto di vetta. Ma il tracciatore gps registrò invece il mio arrivo in vetta: ho il certificato del Club Alpino Pakistano che ha analizzato il mio Garmin».
La storia dell’alpinismo è piena di polemiche e misteri.
«Sì, ma adesso si sta esagerando. Ti rendi conto che hanno messo in dubbio anche il fatto che Messner sia stato il primo a scalare i 14 Ottomila. Ma di cosa stiamo parlando? Così quest’anno ho deciso di non scrivere niente sui social della mia spedizione. Sono partito in sordina, per conto mio e senza dire niente a nessuno. E infatti l’annuncio di vetta non l’ho dato io ma la Seven Summit Treks, la più grande agenzia di spedizioni alpinistiche. Però questo mi fa male».
Perché?
«Mi spiace per i miei tifosi, per gli sponsor e soprattutto per i giovani. Così si perde il gusto di raccontare la montagna, di trasmettere il senso dell’avventura, di far sognare le persone che sono a casa e non potranno mai vedere questi giganti himalayani. Anche per questo le nuove generazioni non sono più attratte dagli Ottomila».
Che scalata è stata?
«Difficile. Perché le montagne stanno cambiando a velocità folle. L’icefall era quasi impraticabile, il ghiacciaio si spacca, si frantuma e crea crepacci enormi, secondo me tra 10-15 anni di là non si passa più. Da Campo 1 a Campo 2 abbiamo scalato sotto la pioggia, siamo rimasti due giorni in quota completamente zuppi, un cosa incredibile».
Poi?
«Poi ho dovuto combattere coi miei piedi, con quel che resta. Dopo l’amputazione di tutte le dita, soffrono terribilmente il freddo e l’umido. Impiego un’ora e mezza a preparare ogni piede prima di salire in quota, metto una crema riscaldante, poi la calza elettrica, poi una calza impermeabile, infine infilo il piede nella scarpetta che ha a sua volta la soletta elettrica. Praticamente divento l’uomo elettrico, se c’è un cortocircuito faccio la fine di Babbo Natale».
In vetta hai sventolato la bandiera di Milano-Cortina 2026.
«Certo, e l’ho fatto con grande orgoglio. Io sono figlio della Lombardia, della Valtellina in particolare, e quello del prossimo febbraio è un appuntamento molto importante per tutti noi e per le nostre montagne».
Una volta tornato nella tua valle come pensi di festeggiare?
«Niente di particolare, voglio solo stare con mia moglie, che troppo tempo siamo stati lontani durante le mie spedizioni, e poi con tutti gli amici che mi vogliono bene. Un bicchiere di vino, una pizza, un buon sigaro Toscano, e soprattutto tanti sorrisi. Dobbiamo ricominciare a guardarci negli occhi e sorridere...».
Pensi che la tua vita cambierà ora che hai finito la caccia agli Ottomila?
«No, torno a fare la guida alpina, che è il mio lavoro, a raccontare la montagna ai giovani e nelle aziende, a dedicarmi all’elisoccorso, che mi dà grandi soddisfazioni perché salvare delle vite è tanta tanta roba. E poi mi piacerebbe accompagnare i clienti in Nepal, organizzare trekking al cospetto di queste enormi montagne».
Sei entrato nella cerchia ristretta di quelli che hanno scalato tutti i 14 Ottomila: chi ti ha ispirato di più?
«Un nome su tutti: Messner. Perché è stato il primo, perché è stato sempre avanti a tutti, ha tracciato una strada. Ero sulla cima del G1 l’altro giorno e mentre guardavo giù la valle pensavo proprio a lui che era salito quassù 50 anni fa. Ti rendi conto? Con l’attrezzatura e l’abbigliamento di 50 anni fa... Lui e Bonatti sono stati dei visionari, dei geni, come Leonardo da Vinci».
Quale di queste 14 montagne ti è rimasta più nel cuore?
«La scalata più bella è stata al Cho Oyu, nel 2007: ci avevano rubato le tende a Campo 2 così siamo stati costretti ad andare in velocità e l’abbiamo salito in giornata. Una grande prova di forza. Anche al Shisha Pangma è stato bello, perché siamo scesi con gli sci. Ma io sono figlio soprattutto del K2...».
La tragica spedizione del 2008 che costò la vita a 11 alpinisti e dove anche tu hai rischiato di morire.
«Già, ma quella montagna mi ha risparmiato. Sono tornato distrutto nel fisico e nella mente, coi piedi congelati, ho subito operazioni e amputazioni, ma alla fine il K2 è stato gentile con me e mi ha regalato la vita, la cosa più importante. Lì io sono nato una seconda volta».