Berruti: "Fare bene la curva dei 200 è un'esperienza erotica. Io e Mennea come Platone e Aristotele"

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L'oro olimpico sui 200 a Roma 1960 si racconta: "Con Wilma Rudolph solo una passeggiata mano nella mano. Il più grande sportivo di sempre? Dico Schumacher perché..."

Pier Bergonzi

Vicedirettore

3 settembre - 08:18 - MILANO

Calze e scarpe bianche, occhiali da sole e quel fisico da ballerino che accarezzava la curva: Livio Berruti entrò così nella leggenda del nostro sport, e se volete nella storia d’Italia. Conquistò l’oro dei 200 metri, all’Olimpiade di Roma, eguagliando per la seconda volta in poco più di due ore il record del mondo. Fu il primo europeo a vincere l’oro della distanza più classica (quella dell’antico “stadion” di Olympia che era esattamente di 192,28 metri), grazie alla sua corsa “leggera”, elegante e gioiosa. Era il 3 settembre del 1960, 65 anni fa. Siamo andati a trovarlo a Torino, dove vive con la moglie Silvia, per una chiacchierata intorno a quell’impresa. Livio ha 86 anni, si muove a fatica, parla a fatica ma la sua testa, lucidissima, va veloce come quando era l’uomo più rapido della Terra. E anche di più. Il suo fu l’oro italiano più prestigioso della prima “vera” olimpiade contemporanea, quella che raccolse la meglio gioventù di tutto il mondo, l’ultima avventura “olimpica” prima che lo sport perdesse la sua innocenza. Quelli furono i Giochi di Abebe Bikila, primo nella Maratona a piedi scalzi, di Cassius Clay, oro dei medio massimi a 18 anni (diventerà poi Muhammad Ali nel 1964, dopo la conversione all’Islam), di Nino Benvenuti, di Sante Gaiardoni e Raimondo D’Inzeo. Miti! Livio aveva 21, veniva da una famiglia benestante, aveva studiato al Liceo Classico Cavour di Torino e frequentava l’Università di Chimica. Non correva per necessità o per riscatto, lui correva per piacere, per divertimento. E il suo spirito libero, audace e un po’ anarcoide è rimasto lo stesso.

Se ripensa a quel 3 settembre d’oro qual è il primo flash?

"Ripenso al mio stato d’animo in quei pochi secondi, una ventina che possono essere tutto o niente. Non lo davo a vedere, ma ero terribilmente preoccupato perché temevo di avere speso tutto nella semifinale che avevo vinto due ore prima, eguagliando il record del mondo in 20”5. Pensavo che avrei dovuto fare la curva perfetta e ci sono riuscito. Lo stadio era una bolgia, ma io non sentivo niente, tanto ero concentrato sulla corsa. Ero come in trance, eppure sentivo il respiro affannoso dei miei rivali. Temevo che potessero recuperare e all’uscita dalla curva ho allungato il passo. Alla fine ho vinto confermando il tempo di 20”5, che era record del mondo, e a quel punto è tornato in primo piano anche il rumore assordante dello stadio e mi sono sentito felice".

Si dice che in quelle due ore di attesa, tra semifinale e finale, mentre i suoi rivali si riscaldavano lei era nello spogliatoio a studiare chimica...

"Era un modo per esorcizzare la paura. Norton e gli altri si sono consumati nel riscaldamento. Io passai il tempo con un libro e un’aranciata e provai due partenze negli ultimi minuti".

E cambiò le scarpe. Dalle Adidas, più moderne e leggere della semifinale col primato mondiale alle Vallesport, più pesanti, ma completamente bianche come le calze… Scelta tecnica o stilistica?

"Fu una scelta esclusivamente estetica, narcisistica. Mi piaceva che le scarpe della finale fossero bianchissime, come quelle di Jessie Owens, quando vinse 4 ori ai Giochi di Berlino 1936. Con quelle più tecniche e leggere avrei fatto ancora meglio? E chi lo sa? Semmai avrei potuto far meno di 20”5 nella semifinale perché ho rallentato quando ho capito di essere qualificato".

Owens era presente a Roma, le ha detto qualcosa?

"Ci siamo incontrati, ma non era il massimo dell'apertura agli altri".

Tra Owens, Lewis e Bolt, chi è stato il velocista più grande? Come li mette in fila?

"Epoche diverse: per giudicare mi affido alla morfologia e penso che Bolt sia unico. Correva con la potenza di un bisonte, ma anche con l’eleganza di un’antilope. Lui è davanti tutti".

Il più grande di sempre tra tutti gli sport?

"Dico Michael Schumacher perché amo gli sport motoristici, e Schumi è il più grande campione che la F1 abbia avuto".

Roma ‘60 è anche l’Olimpiade di Wilma Rudolph che vinse 3 ori: 100, 200 e staffetta veloce. Eravate diventati qualcosa più che amici?

"Ma no, fu un amore platonico. Wilma aveva un sorriso radioso che ti ammaliava e una straripante voglia di vivere. Aveva 20 anni, uno meno di me, ed era la ventesima di 22 figli, aveva rischiato di non poter camminare per una poliomielite e a Roma volava".

Ci sono però le foto di voi due che camminate mano nella mano nel villaggio olimpico e si racconta che Cassius Clay, gelosissimo vi cercasse.

"Di Cassius Clay, fortunatamente, l’ho saputo dopo… Quella passeggiata c’è stata perché lei è venuta a cercarmi e mi ha regalato la sua tuta della Nazionale Americana, che conservo ancora qui a casa, a Torino. Io non me lo aspettavo e non ho potuto ricambiare. Sì, davvero non siamo andati oltre la passeggiata mano nella mano. A quei tempi, per noi atleti non poteva esserci nulla prima e durante… semmai dopo. Ma abbiamo disputato le finali delle rispettive 4x100 l’ultimo giorno dei Giochi e lei è partita subito dopo. A quell’epoca ero timidissimo e non avevo i soldi per pagarle un altro volo. L’ho rivista qualche anno dopo. Ma era già sposata".

A proposito di soldi, l’oro olimpico le ha fruttato 800 mila lire, più 400 mila per il record del mondo, come premi Coni, e una 500 offerta dalla Fiat.

"Al posto della 500 ho ritirato una 1100 per mio papà e con i soldi della medaglia d’oro mi sono comprato una Giulietta Sprint bianca. Bellissima. In realtà costava 2 milioni, ma mi fecero uno sconto del 10 per cento e aggiunsi un po’ di soldi ai premi per realizzare uno dei miei sogni".

Da Roma tornò sfruttando un passaggio del giornalista e amico Gian Paolo Ormezzano.

"Con la sua Fiat 600 comprata a rate. Io perlopiú ho dormito. Lui guidava come un matto e a Genova, non c’erano ancora le autostrade, ci hanno dato una multa per e eccesso di velocità".

Eppure lei avrebbe voluto diventare tennista…

"Era lo sport che amavo. Ma a scuola praticavo l’atletica. Melchiorre Bracco, il professore di educazione fisica del Liceo Cavour, che mi vedeva smilzo, mi aveva indirizzato ai salti: alto e lungo. Poi, come per scommessa ho battuto Saverio D’Urso, il più veloce del Liceo, in una gara sprint nel cortile della scuola, e da lí é iniziata la mia storia di velocità. Mi sono tesserato per il Club Lancia, perché consentivano agli iscritti di giocare gratis sui campi di tennis".

È un gran momento per le racchette italiane.

"Certo, tifo per Sonego che è cresciuto allo Sporting di Torino dove sono socio onorario e stravedo per Sinner. Jannik ha talento, ma a me piace il suo equilibrio. Merita di essere il numero uno".

È vero che lei si allenava poco?

"Verissimo. Per me l’atletica era gioia e piacere. La curva dei 200 metri ben fatta era un’esperienza erotica. Mi allenavo due o tre volte alla settimana, senza pesi, improvvisando molto e senza fare troppa fatica".

Un atteggiamento agli antipodi, rispetto a Mennea, l’altro italiano olimpionico dei 200.

"Eravamo due mondi completamente diversi. Come Platone contro Aristotele. Io pensavo solo a divertirmi e non ho mai monetizzato il mio impegno. Lui ossessionato dall’etica del lavoro e dell’impegno ma anche dagli aspetti economici dello sport".

Avete avuto anche degli scontri.

"Nel 1979 mi accusò di avergli dato del “fifone”’ in un’intervista. Ma non era vero. A Formia però mi tese un agguato con un gruppo di tifosi esaltati e suo fratello che mi tirò un pugno. Poi, nel 1985, per recuperare mi regalò in diretta, alla Domenica Sportiva, la maglia azzurra dell’oro di Mosca ‘80. Mi era sembrato un gran gesto, ma quando ho aperto la scatola mi sono accorto che non era la maglia dell’Olimpiade, perché quelle hanno il numero cucito…".

Come ha accolto l’oro dei 100 di Jacobs di Tokyo 2021?

"Come una grande impresa. In quei giorni Marcell riuscì continuamente a migliorarsi. Mi fece rivivere la mia esperienza di Roma. Correva come me per le Fiamme Oro e vinse senza essere favorito. E gli sono grato perché ha dato un contributo importante per il successo della 4x100 del mio amico Tortu".

Lei ha debole per Filippo Tortu, che attraversa una fase difficile della carriera. Ha un consiglio per lui?

"Deve tirar fuori un po’ di cattiveria. Lui è troppo perbene. Deve essere meno educato e deve amare la curva di un amore totale. Lui ha tutto per andare sotto i 20 netti sui 200".

E di Kelly Doualla, la quindicenne campionessa europea under 20 dei 100 che cosa pensa?

"Tutto il bene possibile. Per la grinta e l’energia vitale mi ricorda la Rudolph e ha fatto bene a non andare ai Mondiali assoluti. È giovanissima. Il futuro è suo".

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