Lo storico "Doc" dei rossoneri apre il libro dei ricordi: "Per dare più zuccheri ai ragazzi portai la crostata a Milanello. Dissi a Van Basten di non operarsi, se mi avesse ascoltato ci avrebbe regalato altri 2-3 anni del suo calcio fantastico"
Nelle sue cronache immaginifiche, Carlo Pellegatti lo chiamava il “figlio di Esculapio”, in greco Asclepio, il dio della medicina. Rodolfo “Rudy” Tavana è stato il medico del Milan di Silvio Berlusconi, ha vinto Champions e scudetti, ha diagnosticato e curato.
Dottor Tavana, nel 1987 Berlusconi la chiamò al Milan. Perché proprio lei?
“Ero un traumatologo, mi dividevo tra la Pro Patria di atletica e la nazionale dello sci di fondo. Ero andato ad aggiornarmi negli Usa, tra San Antonio Spurs (basket Nba, ndr) e Dallas Cowboys (football americano, ndr). Il Milan aveva come medico il dottor Monti, bravissimo, ma Berlusconi voleva creare una struttura sanitaria a 360 gradi e scelse me, tra otto candidati, per la figura di direttore dell’area. Cominciai dall’alimentazione. Il carburante dell’alta intensità è lo zucchero e studi svedesi dell’epoca dimostravano che alla fine del primo tempo i calciatori lo avevano già esaurito”.
Lei introdusse a Milanello la famosa crostata, che tanto fece discutere, per aumentare gli zuccheri?
“Sì, lo stesso Berlusconi si era stupito che ciascuno mangiasse quello che gli pareva. Bisognava fissare delle regole. La crostata veniva mangiata a merenda e nei pranzi prepartita, ma Berlusconi impose altre novità. Per esempio, ogni medico, da me fino ai colleghi del settore giovanile, doveva essere reperibile una volta a settimana. Non c’erano i cellulari e ci diedero un cicalino. Quando suonava, dovevi correre al telefono e chiamare un centralino Fininvest che ti informava sull’intervento di emergenza richiesto da questo o quel giocatore, per sé o per un suo familiare. Berlusconi voleva che i calciatori pensassero a giocare e basta, che la società risolvesse ogni loro preoccupazione, che fosse la febbre di un figlio o un malessere della moglie”.
Liedholm, l’allenatore che Berlusconi si trovò a Milanello quando comprò il club, non sembrava entusiasta della modernizzazione.
“Era scettico, ma nel 1988, in occasione dello scudetto di Sacchi, disse che avevamo vinto perché avevamo introdotto una nuova medicina dello sport. Il dottor Monti mi diceva che nel calcio precedente la figura del preparatore atletico compariva nel ritiro estivo e poi spariva, cosa che oggi sembra lunare. Noi la rendemmo fissa e costante. Cominciammo a lavorare sulla prevenzione degli infortuni muscolari e delle tendinopatie, che restano quasi il 50 per cento delle lesioni legate al calcio, perché l’usura è inevitabile. Nel baseball, il lanciatore prima o poi soffrirà di problemi alla spalla”.
Un aneddoto su Arrigo Sacchi, l’allenatore che per primo fece vincere tutto al Milan berlusconiano?
“Il mercoledì, Arrigo lavorava sulla super velocità con gli sprint in discesa. Gli dissi che nell’atletica li avevano abbandonati per il rischio di stiramenti e strappi. Arrigo mi rispose che quel lavoro gli garantiva ottimi ritmi in partita. Poco dopo, durante uno scatto in discesa, Evani si infortunò ai flessori e Sacchi abbandonò questa metodologia”.
E su Capello?
“Era stato giocatore, capiva tutte le dinamiche, ma per me la sua figura resta legata alla finale di Champions contro il Barcellona, nel 1994, ad Atene. Pochi giorni prima, al bar di Milanello, un giornalista aveva fatto questa battuta, che era arrivata in spogliatoio: 'Il Milan farebbe meglio a non presentarsi, perderebbe soltanto per 2-0 a tavolino'. Poi la Gazzetta pubblicò una foto di Cruijff (l’allenatore del Barça, ndr) con la Coppa in mano. Seba Rossi, il portiere, la notò e la fece girare tra i compagni, Paolo Maldini per primo. Cruijff disse che il Barcellona aveva acquistato Romario e che al Milan era arrivato Desailly. Tutte cose che ci caricarono a molla. Così vincemmo per 4-0, con una prestazione meravigliosa. Desailly giocò una partita mostruosa, segnò un gol e passò la notte a letto per un mal di testa fortissimo, da stress post vittoria”.
Parliamo di Marco Van Basten, ritiratosi a 30 anni. Lei era contrario all’operazione alla caviglia indebolita dall’assottigliarsi della cartilagine.
“Mi opposi alla prima operazione, a cura del professor Marti, a Sankt Moritz, in Svizzera. Il professor Martens intervenne poi, per riparare il danno. Van Basten nel suo libro (Fragile, ndr) scrive che il chirurgo gli aveva detto che in due mesi sarebbe tornato in campo e che lui gli credette. E poi aggiunge che al Milan tutti si opponevano all’intervento. Lottai fino all’ultimo. Marti voleva pulire la cartilagine, io dissi a Marco che non bisognava togliere quel minimo di protezione che era rimasta. Niente da fare e mi dispiace, perché avrebbe potuto regalarsi e regalarci altri due o tre anni del suo calcio fantastico. Van Basten era uno sportivo nato. Quando è passato al golf, è arrivato ad handicap 3. Una volta andò a sciare, cosa mai fatta prima, e a fine giornata il maestro gli disse che sciava già come se avesse preso venti lezioni. Aveva la capacità naturale di apprendere qualunque gesto motorio. Marco resta il mio rimpianto più grande”.
I giocatori del Milan si comportavano tutti bene?
“Professionisti esemplari, non c’è traccia di bravate notturne. A volte, andavo nei ristoranti in cui sapevo che erano a cena e mi informavo su che cosa avessero mangiato: mai uno sgarro, anche nelle uscite seguivano le linee guida del nostro nutrizionista”.
Gullit?
“Una sera mi telefona: 'Doc, ho un dolorino'. Siamo nella settimana di Napoli-Milan del 1° maggio 1988 (la partita che di fatto consegnerà al Milan il primo scudetto dell’era berlusconiana, ndr) e mi preoccupo: 'Ruud, vieni a casa mia, in via Novara'. Gullit arriva, lo visito, constato che non ha nulla di serio e gli dico: 'Fermati a cena da me, dai'. Uno dei miei due bassotti mordicchia Ruud a un polpaccio. Disinfetto il graffio e finisce lì. La mattina dopo, Gullit si presenta a Milanello zoppicante e con una vistosa fasciatura alla gamba morsicata: 'Doc, ha visto il suo cane? Con il Napoli non gioco'. Mi avvio verso lo spogliatoio e penso che la mia carriera al Milan sia finita, che Berlusconi mi licenzierà. Quando arrivo sul campo, Gullit esce tutto sorridente e senza bende: 'Doc, era uno scherzo!'".
Altre burle?
“Nella mia seconda volta al Milan, la squadra festeggiò un gol imitando la mia camminata pensierosa, con le mani allacciate dietro la schiena. Si girarono verso di me, ridevano. Il giorno dopo la Gazzetta pubblicò la foto e nella didascalia si parlava di una misteriosa esultanza”.
Lei ha avuto a che fare anche con le ginocchia devastate di Robi Baggio.
“Professionista serissimo, era ovvio che per lui una certa parte del lavoro fosse differenziata. Prima di allenarsi, si sottoponeva a una routine di esercizi per le ginocchia. Era popolarissimo, specie in Oriente. Ricordo un’amichevole in Asia, lo stadio tutto per lui ne cantava il cognome storpiandolo: 'Bagghio! Bagghio!'”.
Nella sua seconda volta al Milan, tra il 2011 e il 2017, salvò la vita Antonio Cassano.
“Atterrati a Malpensa, di ritorno da una trasferta a Roma, Thiago Silva venne da me: 'Dottore, Cassano non sta bene, è confuso'. Il dottor Mazzoni e io lo rintracciammo al parcheggio. Voleva rientrare a casa con la sua auto. Gli facemmo degli esami neurologici di base, c’era qualcosa che non andava. Gli dissi: 'Sali, ma la tua auto la guida il dottor Mazzoni, che ti porterà al Policlinico'. Non sapevamo che cosa fosse, poteva essere un’ischemia, dovevamo accorciare i tempi per ridurre eventuali danni. Mazzoni rimase a dormire con lui in stanza, non deve essere stata una notte facile… Gli accertamenti stabilirono che si trattava di un problema neurologico che originava dal cuore. Cassano venne operato e il guaio risolto, riebbe l’idoneità agonistica. Cassano mi ringraziò modo suo: 'Nel parcheggio, la tua autorevolezza mi ha costretto a obbedire'. Tra l’altro, qualche anno prima della stessa cosa aveva sofferto Egidio Calloni (ex centravanti del Milan negli Anni Settanta, ndr). A lui andò due volte bene: il malore gli venne mentre era alla guida, usci di strada, si salvò”.
Altre volte ha dovuto imporsi su un giocatore?
“Su Leonardo, per un trauma cranico: 'Dottore, io sto bene e resto in campo'. Gli dissi: 'No, tu esci e ti portiamo al Niguarda'. Ancora oggi Leonardo non si ricorda del tragitto in ambulanza. Una cosa analoga mi è capitata con Donnarumma: prese una botta in testa, non voleva uscire. Gli dissi: 'Mi spiace, c’è il secondo portiere, andiamo all’ospedale'. Con la testa non si scherza. Quando siamo andati a Wolverhampton, in Inghilterra, con il Torino, mi ha colpito che dentro lo stadio ci fosse una stanza con un medico deputato a controllare via video i giocatori alle prese con i traumi alla testa. Mi spiegò che era lui, in base alle immagini, a decidere se il giocatore colpito avrebbe continuato a giocare o meno”.
I traumi in generale sono sospettatati essere una concausa dell’insorgenza della Sla, la Sclerosi laterale amiotrofica, che ha colpito e ucciso tanti calciatori...
“Tra loro Stefano Borgonovo, che ho avuto al Milan. Non credo a una correlazione diretta tra calcio e Sla, i numeri non ci dicono questo. C’è uno studio che sottolinea una cosa più ampia: la Sla è più frequente tra coloro che svolgono lavori di grande fatica”.
Dopo il Milan, nel 2017, è stato al Torino.
“Con il presidente Urbano Cairo, che conoscevo dai tempi del Milan, perché lavorava con Berlusconi. Io dico sempre: il Toro era tecnicamente fallito, Cairo l’ha salvato e lo ha riportato in Serie A. Nei miei anni al Torino, era sempre presente, voleva avere la situazione sotto controllo, un po’ come Berlusconi al Milan. Al Toro sono stato bene”.
Lei era consulente medico di Pietro Ferrero, morto in Sudafrica, a Città del Capo, durante un’uscita in bicicletta, la sua passione.
“Pietro l’avevo conosciuto per via di una sua caviglia malconcia, l’avevo curato a Milanello. Poi mi aveva cercato perché alla Ferrero di Alba voleva creare una linea di bevande e alimenti per i bambini che fanno sport. Il bimbo passa la mattinata a scuola, il pomeriggio ha lo sport e deve mangiare e bere di conseguenza. Pietro è morto a 49 anni per un’anomalia cardiaca genetica, che non era stata colta dagli esami per l’idoneità sportiva. Quando pedalava nelle sue Langhe, era seguito da un pullmino con il defibrillatore. Non aveva elementi per pensare di essere a rischio di morte, era una precauzione sua, di sicurezza. Purtroppo, in Sudafrica era solo”.
La fatalità come elemento della vita. È vero che il Milan di Berlusconi avrebbe potuto dissolversi in volo, come capitò al Grande Torino?
“Alla fine di settembre del 1987, giocammo sul campo neutro di Lecce una partita di Coppa Uefa contro il Gijon (vittoria per 3-0, ndr). Ritornammo a Milano su un Atr 42. Quello stesso aereo, con il medesimo equipaggio, due settimane dopo si schiantò su una montagna del Comasco, mentre era in volo da Linate a Colonia (37 vittime, ndr). Cos’altro potrei aggiungere?”.