Nessuna "incoerenza" nella condotta italiana, semmai un'invasione di campo indebita della Procura della Corte penale internazionale. Nell'ultima memoria difensiva - quindici pagine a firma dell'ambasciatore nei Paesi Bassi, Augusto Massari - consegnata all'Aja, Roma rilancia la propria linea sul caso Almasri, aprendo un nuovo fronte nel braccio di ferro giuridico-diplomatico che da gennaio si consuma a colpi di carte bollate, sotto la minaccia sempre presente di un deferimento in sede Onu.
Nel respingere le accuse sulla mancata consegna del generale libico accusato di torture e crimini contro l'umanità, il governo rivendica di aver agito "in buona fede" e sposta l'asse del duello sul terreno delle prerogative sovrane. Nel perimetro tracciato da Roma, il procedimento riguarda "esclusivamente lo Stato e la Corte": non spetta alla procura della Cpi - è la tesi - "giudicare eventuali violazioni della cooperazione, né interpretare le disposizioni interne" di uno Stato sovrano. E, si sottolinea, le osservazioni del procuratore non possono costituire la base per un deferimento né agli Stati parte né al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
Nel controcanto offerto dall'Italia, i rilievi tornano a battere sulle "incertezze" contenute nel mandato d'arresto spiccato dalla Cpi su elementi ritenuti "essenziali" - a partire dalle date dei presunti crimini attribuiti ad Almasri - che, nella lettura del governo, il procuratore dell'Aja avrebbe liquidato come meri refusi tipografici, senza dar conto del fatto che le imprecisioni siano state corrette solo successivamente, insieme ad altri profili sostanziali, inclusa la corretta identificazione giuridica dei fatti contestati. Ma al centro del testo difensivo c'è anche la ricostruzione del rimpatrio: l'idea che il rientro del generale in Libia sia stato una "conseguenza automatica" della richiesta di estradizione formulata da Tripoli viene derubricata a "malinteso". Quella richiesta, nella versione di Roma, avrebbe semmai contribuito a rendere più complesso l'esame sulla cooperazione con la Cpi. E il rimpatrio, è il chiarimento, "non è avvenuto in esecuzione dell'estradizione, bensì in forza di un decreto di espulsione motivato da ragioni di ordine pubblico e sicurezza nazionale, vista la pericolosità del soggetto".
Una scelta che l'Italia definisce "l'unica via giuridicamente e praticamente fattibile", tornando a rigettare ogni ipotesi di incoerenza, pur di fronte al rilievo della Corte secondo cui il governo avrebbe dovuto avviare la procedura di consultazione prevista dallo Statuto di Roma. Tutte argomentazioni che, in campo politico, hanno subito suscitato le critiche di Avs, che ha bollato come "assolutamente non credibile e assai patetica" la linea del governo Meloni: tenta soltanto di "trovare una scappatoia per quei ministri che hanno permesso la liberazione di un torturatore e trafficante di esseri umani", ha tuonato Nicola Fratoianni.
La memoria, pur indirizzata alla Corte dell'Aja, sembra rivolgersi anche al fronte interno, dove resta alta l'attesa per l'esito dell'indagine condotta dal Tribunale dei ministri che coinvolge la premier Giorgia Meloni, il sottosegretario Alfredo Mantovano e i ministri Carlo Nordio e Matteo Piantedosi. Dopo una serie di rinvii legati anche alle richieste d'accesso agli atti, la trasmissione del provvedimento firmato dalle tre giudici al procuratore capo di Roma, Francesco Lo Voi, secondo quanto trapela, sarebbe attesa a breve, sebbene non sia stata ancora fissata una data ufficiale.
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