Passaporto genetico: una mappa per curare meglio, fin dalla nascita

6 ore fa 2

Intervista

In Olanda è già adottato per guidare la prescrizione dei farmaci e anche in Italia cresce l’interesse per la farmacogenetica, che può prevenire effetti collaterali e fallimenti terapeutici

di Michela Moretti

1 luglio 2025

Se è noto da tempo che elementi come età, sesso, etnia, presenza di diverse malattie possono influenzare la risposta a un farmaco, più recente è la comprensione che anche numerosi fattori genetici possono modificarne l’efficacia individuale. Di questo si occupa la farmacogenetica, oggi una realtà clinica consolidata. Questa disciplina si fonda sullo studio delle varianti genetiche individuali, cioè sulle differenze nella sequenza del Dna che ciascuno di noi possiede e che possono influenzare profondamente il modo in cui il nostro organismo risponde ai farmaci. La farmacogenetica permette di prevedere, per una serie di farmaci, se un paziente potrà manifestare o meno effetti collaterali o necessitare di un aggiustamento della dose di una terapia farmacologica, proprio in base alle sue specifiche caratteristiche genetiche.

Oggi, nel famoso foglietto illustrativo di numerosi farmaci si trovano indicazioni che segnalano come particolari geni o loro varianti possano influenzare la risposta al farmaco. Si tratta di una conoscenza accumulata negli anni, grazie a studi osservazionali e post-approvazione, che ha permesso di individuare varianti genetiche capaci di modificare l’efficacia e la sicurezza di molti medicinali largamente utilizzati.

Ne parla Matteo Floris, professore associato di genetica medica all’Università di Sassari e membro del gruppo di lavoro dedicato alla materia della Società italiana di genetica Umana (Sigu).

Professor Floris, la farmacogenetica riguarda tutti i farmaci e tutte le malattie?

No, la farmacogenetica non riguarda tutti i farmaci, ma molti farmaci di uso molto comune. Penso alle statine, agli inibitori della pompa protonica, come omeprazolo ed esomeprazolo, a diversi farmaci neuropsichiatrici e agli anestetici. Non sono tantissimi i farmaci per cui si ha questa conoscenza, ma sono generalmente farmaci di grande utilizzo.

Esistono due tipi principali di farmacogenetica. La farmacogenetica somatica è quella applicata all’oncologia, dove si analizza il profilo genetico del tumore per scegliere la terapia più adatta. La farmacogenetica germinale, invece, si riferisce alle varianti genetiche ereditarie che ciascuno di noi può avere e che possono essere testate anche alla nascita. In alcuni paesi, come l’Olanda, si parla di “passaporto farmacogenetico”: una profilazione genetica dei geni rilevanti per la risposta ai farmaci, valida per tutta la vita.

Come i fattori genetici possono influenzare la risposta ai farmaci?

È intuitivo: quando assumiamo un farmaco, questo viene assorbito, distribuito, metabolizzato ed eliminato dal nostro organismo attraverso l’azione di proteine ed enzimi prodotti dai nostri geni. Differenze in questi geni, che possono essere comuni tra individui o tra etnie, possono influenzare il destino del farmaco nel corpo: il metabolismo, la velocità di eliminazione, l’efficacia e persino la tossicità. Negli anni, dopo la consapevolezza maturata a partire dagli anni Cinquanta, sono state scoperte molte varianti genetiche che possono influenzare la risposta al farmaco, sia in termini di efficacia che di effetti collaterali.

È necessario sequenziare tutto il genoma per ottenere queste informazioni?

No, non serve sequenziare tutto il genoma. I geni clinicamente rilevanti per la farmacogenetica sono relativamente pochi e riguardano soprattutto quelli coinvolti nel metabolismo e nel trasporto dei farmaci. Si utilizza il sequenziamento mirato, che analizza solo le regioni del Dna più informative dal punto di vista clinico.

Come si traducono in pratica queste informazioni?

Una volta ottenuta la profilazione genetica, si può dire che l’individuo è portatore di determinate varianti genetiche. A questo punto, si utilizzano algoritmi codificati da organismi internazionali, come il consorzio Cpic o il Dpwg olandese, che permettono di classificare l’individuo, ad esempio, come “lento metabolizzatore” di un certo citocromo, cioè di un enzima epatico che metabolizza varie sostanze, tra cui molti farmaci. In sostanza, quello che è scritto nel Dna permette di classificare la persona in una certa categoria fenotipica, prevedendo come reagirà a un determinato farmaco. Per queste persone è necessario prevedere un cambio di dose. Si tratta di un processo utilizzato già per numerose terapie.

Può citare un esempio?

Un esempio concreto di applicazione della farmacogenetica riguarda gli anestetici: esistono varianti genetiche ben note che, se identificate, permettono di sapere in anticipo se un individuo è a rischio, indipendentemente dal fatto che debba o meno sottoporsi a un intervento. Un altro caso emblematico è quello di antibiotici come la gentamicina: alcune varianti nel Dna mitocondriale possono causare una tossicità severa, soprattutto nei neonati.

In Inghilterra, per affrontare questo rischio, è stato introdotto un test genetico rapido che, in soli 30 minuti, identifica i neonati a rischio di tossicità. Questa pratica è particolarmente importante in ambito pediatrico, dove spesso i neonati ricoverati con sospetta sepsi vengono trattati tempestivamente con questi antibiotici. Sapere subito se il bambino è portatore della variante genetica permette a medici e famiglie di prendere decisioni più consapevoli e di adattare la terapia, evitando effetti collaterali gravi anche se i casi sono rari, circa un bambino su 400.

Come implementare la farmacogenetica nella pratica clinica quotidiana?

Le linee guida traducono i dati genetici in istruzioni operative: indicano quando ridurre la dose, quando evitare un farmaco o quando sostituirlo. Questo rappresenta uno strumento fondamentale per integrare la farmacogenetica nella pratica clinica e nel sistema sanitario nazionale. E su questo fronte la Sigu è al lavoro per completare le prime linee guida nazionali sulla farmacogenetica.

A cosa servono le linee guida e quali sono i dettagli che ne rendono urgente l’adozione anche nel nostro Paese?

Le linee guida forniscono un indirizzo chiaro sia ai genetisti sia ai medici, indicando quali test vanno fatti, come interpretare i risultati e quale deve essere il flusso di lavoro. Il modello ideale prevede che il genetista esegua il test, estragga le informazioni di rilevanza farmacogenetica e le trasmetta al farmacologo clinico o allo specialista, che le utilizzerà per scegliere il farmaco e la dose più adatti al singolo paziente. È il principio del farmaco giusto, alla dose giusta, per ogni individuo. Senza linee guida autorevoli, si rischia di avere informazioni poco affidabili o difficili da interpretare.

In diversi Paesi europei come Olanda, Germania, Spagna e Svizzera in testa, le linee guida sulla farmacogenetica sono già realtà consolidate; si tratta quindi di adattarle al nostro sistema sanitario e applicarle ai farmaci approvati in Italia. Il rischio di trascurare alcune varianti genetiche specifiche presenti nel nostro Paese esiste, ma viene minimizzato grazie a un processo di aggiornamento periodico: le linee guida vengono riviste ogni volta che emergono nuove conoscenze sulla rilevanza clinica di nuove varianti genetiche.

La bozza delle linee guida è già stata redatta e si trova in fase di revisione: un documento che richiede un’ampia discussione, ma che dovrebbe essere pronto entro fine 2025.

Loading...

Loading...

Newsletter

Notizie e approfondimenti sugli avvenimenti politici, economici e finanziari.

Iscriviti

Leggi l’intero articolo