Paonessa: "Per alcuni ero meglio di Rooney, poi... A Parma trattato come una pallina"

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L'ex fantasista del Bologna racconta la sua carriera falcidiata da infortuni e sfortuna: "Oggi faccio l'agente assicurativo per i calciatori e porto come esempio la mia storia"

Francesco Pietrella

Giornalista

31 luglio - 12:48 - MILANO

C’è stato un momento in cui Gabriele Paonessa si è sentito come Keanu Reeves, la star di "Matrix". Quand’era adolescente si ritrovò di fronte un signor Morpheus con gli occhiali a specchio e due pilloline tra le mani. Nella prima c’erano l’Arsenal e il Manchester United, nell’altra Bologna. Paonessa ingoiò la pillola blu. “Sognavo la Serie A, era giusto restare”. Matrix non l’ha mai visto né sentito, ma ancora oggi gli piacerebbe sapere cosa sarebbe successo se fosse salito sulla Nabucodonosor. “Uno dei tanti rimpianti che ho”. Gabriele si è ritirato a 29 anni dopo una carriera falcidiata da infortuni. L’ultima partita l’ha giocata a 26. La sfortuna s’è infilata di soppiatto sotto la porta la notte prima del suo esordio in Serie A con il Bologna. Oggi è diventato un agente assicurativo per i calciatori.

Com’è stato smettere a neanche trent’anni? 

“Tosta, anche perché gli infortuni mi hanno massacrato, distrutto mentalmente e mandato quasi in depressione. Senza questi stop avrei fatto molto di più. Per alcuni anni ho fatto l’istruttore di tecnica, poi ho scelto di occuparmi dell'aspetto assicurativo dei calciatori”. 

Ai giocatori racconta la sua storia? 

“Ciò che ho vissuto mi ha aiutato: vivo e lavoro a Bologna, dove abbiamo lo studio. Seguiamo Birindelli, i fratelli Tramoni, Caracciolo del Pisa, De Silvestri, Strefezza. Ci incontriamo per un caffè e gli spiego quanto sia importante tutelarsi. Un giorno sei in Serie A, poi ti fai male e sparisci dal giro”. 

Da ragazzino è stato un baby fenomeno. 

“Giocavo nel San Lazzaro. A 10 anni aprii la buca delle lettere e ne trovai due: una del Cesena, l’altra del Milan, ma quando il Bologna lo venne a sapere mi tesserò subito. A 15 anni ero nel giro delle nazionali giovanili. Facevo parte di una generazione d’oro sfortunata: Giovinco, Lupoli, Giuseppe Rossi, Cerci, Candreva, Pozzi, Marchisio, Criscito, Osvaldo. C’era anche Bonucci, ma è uscito fuori dopo. Non so come abbiamo fatto a non vincere nulla, avremmo potuto fare di più”. 

Come mai disse no alla Premier?

“Arsenal e United mi offrirono di tutto e di più, ma ero legato al Bologna e firmai con loro”.

Francesco Rocca, all’epoca allenatore delle giovanili, la paragonò a Rooney. 

“Disse che ero più forte di lui. E Marco Motta più forte di James Milner. Conservo ancora a casa il ritaglio di giornale. Lui stravedeva per me, è stato come un padre. Con Giovinco ne parlo ancora”. 

Un altro a cui è legato resta Carlo Mazzone.

“Mi fece esordire a 17 anni in Coppa Italia, contro la Ternana. Non riuscivo a guardarlo per l’emozione. ‘Sai dare del tu al pallone’, diceva. Con lui giocai anche a San Siro contro l’Inter. Mihajlovic, appena entrato, mi rifilò una bella randellata”. 

Poi Avellino e Vicenza: a quei tempi la chiamavano “il piccolo Baggio”. 

“A Vicenza fu Gregucci a darmi fiducia: avevo 19 anni, segnai alla Juve con Buffon in porta e soprattutto al Crotone, all’ultima giornata. Noi salvi, il Verona in C. Diventati un idolo. Poi le maledette comproprietà mi hanno affossato”. 

Come mai dice così? 

“Nel 2007 sarei rimasto volentieri a Vicenza, ma la società non trovò l’accordo col Bologna, così fui spedito in prestito ad Avellino l’ultimo giorno di mercato. Arrigoni non mi voleva. Lo ribadisco: le comproprietà sono state un danno”.

Nel 2008 rientrò a Bologna, di nuovo Arrigoni. 

“Non mi vedeva, ma dopo un paio di mesi fu esonerato e arrivò Mihajlovic. A lui piacevo. In un mese ripresi confidenza col pallone, arrivai al top e lui lo notò. Avevo 21 anni. Il giovedì, prima di giocare contro il Genoa, svelò che mi avrebbe fatto partire dall’inizio insieme a Di Vaio, poi mi diede una pacca sulla spalla e mi sorrise…”. 

E poi? Cos’è successo? 

“Il sabato, durante la rifinitura, andai a contrasto con Bombardini e lui, involontariamente, mi bloccò il ginocchio mentre cadeva. Ricordo il senso di nausea. Mihajlovic capì subito la serietà della cosa, aveva gli occhi lucidi come li avevo io. Quando il dottore disse che era il legamento crociato sinistro era rotto lui disse di non preoccuparmi, ma in cuor suo sapeva. Rimasi fuori tutto l’anno”. 

Da lì in poi non si è più ripreso. 

“L’inizio della fine. Rientrai con Papadopulo, ma andai in prestito a Vicenza. Un altro calvario: prima uno strappo muscolare, poi una distorsione alla caviglia. Uno stop dietro l’altro. Poi, nel 2010, arrivò il Parma, e capii che era finita”. 

In che senso? 

“Firmai cinque anni di contratto, progettai una rinascita che non c’è mai stata, ma solo dopo capii il perché di quei contratti così lunghi: ero uno di quei 200 giocatori che servivano alla società per poter resistere. Continuai a girare in prestito senza meta: Cesena, Gubbio, Como, Perugia. Non avevo più la testa. Ci hanno trattato come carne da macello”.

Dal 2013 al 2015 non ha mai giocato.

“Ero fuori rosa. Quando arrivò Manenti capì che dovevo smettere. ‘Se il calcio è questo allora ho finito’, dissi. Avevo offerte da Bulgaria e Romania, ma non volevo spostarmi. Ho detto basta a 29 anni senza mai aver giocato un minuto in Serie A”. 

La colpa è solo degli infortuni? 

“No, ma lo stop del 2008 mi ha tagliato le gambe. Magari sarei rimasto a Bologna tutta la carriera, chi lo sa. Comunque, sono sincero: nel calcio di oggi non potrei giocare. Il trequartista non esiste più, io sono alto un metro e 70, i difensori mi avrebbero buttato giù senza pietà. Forse avrei fatto la mezza punta, ma il calcio di oggi è un'altra cosa”. 

Nel calcio di oggi non potrei giocare. Il trequartista non esiste più, io sono alto un metro e 70, i difensori mi avrebbero buttato giù senza pietà

Gabriele Paonessa

Il momento più difficile qual è stato? 

"A Parma, li ho vissuto un incubo durato anni. Non so se posso parlare di depressione, ma ho avuto momenti tosti, complessi, dove la mia famiglia mi ha aiutato. Fui sballottato in prestito per soddisfare le esigenze di una società che poi è fallita. Lì mi sono domandato, ‘ma io che ci sto a fare qui?’. Ho fatto la fine di una pallina lanciata da una parte all’altra, e questo mi ha logorato”. 

Ma oggi ogni tanto gioca ancora?

 “Solo in occasione di eventi benefici, ma a 38 anni preferisco correre. Se scendi in campo poi vuoi vincere, ma il corpo non ti segue più e allora ti fai male. E io non voglio più farmi male”.

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