Il grande ex rivela al Corriere: "Che incubo la popolarità dopo il Tour, dopo le vittorie non riuscivo a lasciarmi andare"
3 maggio - 09:25 - MILANO
“Se non volevi, non ti dopavi”. In una intervista al Corriere della Sera Vincenzo Nibali ha ripercorso la sua carriera, dagli inizi in Sicilia: “Ero un bambino che combinava danni e attirava guai come un parafulmine”. Alla passione per la bicicletta che gli ha fatto prendere un’altra strada: “Ho cominciato a 12 anni, con mio padre e i suoi amici cicloturisti. Sempre in salita, che da Messina si esce solo scalando”. Del compagno di scuola che aveva la pistola dello zaino, del pizzo pagato dai genitori che avevano una cartoleria.

dalla sicilia
—
Vincitore di tutti e tre i grandi Giri, di due classiche monumento e di una cinquantina di altre gare importanti, Nibali svela come è cominciato tutto: “A quindici anni vinsi una corsa a Siena e decisi di non tornare più a casa”, di come le parole dei genitori lo hanno sempre indirizzato: “Vai in casa d’altri, comportati come si deve. Se ti impongono scelte sbagliate torna e troverai sempre noi e un lavoro. Una frase decisiva”. Le scelte a cui si riferivano erano sulle scorciatoie: “Al doping, se ne parlava tanto in quegli anni. Quella frase mi ha aiutato a capire il percorso giusto”. Ha perso la Liegi-Batogne-Liegi da un kazako (Iglinskij) poi radiato per doping: “Non mi sono mai posto la domanda di quanto ho perso per colpa del doping, probabilmente tanto. Alla Vuelta me la giocai con tale spagnolo Mosquera, poi radiato. E se avesse vinto lui e non l’avessero scoperto? Andavamo alle corse come si andava in guerra, era un fatto culturale per quella generazione. Detto questo, se non volevi non ti dopavi”. Parla anche dei sospetti: “Vincevo, ero italiano e il boss della mia squadra, Vinokourov, aveva un passato ambiguo come altri manager. Sono stato pedinato, mi hanno aperto la macchina e controllato il telefono e sono sicuro che mi siano entrati anche in casa per trovare prove che non esistevano. I ciclisti erano bersagli facili. Mai nella vita mi sono dopato e soprattutto mai ho pensato di farlo. Mi hanno controllato un milione di volte, possono testare le provette tra cent’anni. A testa alta, sempre”.

la gioia contenuta
—
Nibali spiega perché le sue vittorie non sono mai state accompagnate da scene di gioia sul podio: “Consideravo vincere una cosa normale, non riuscivo mai a lasciarmi andare. Inconsciamente credo che il passaggio da ragazzino discolo a uomo maturo mi abbia cambiato dentro: sempre con il freno a mano tirato tranne che in bici. Pensavo solo alla bici e quando mi affacciavo su un mondo a me sconosciuto mi chiudevo a riccio”. Così il trionfo al Tour è diventato un incubo: “Ero travolto, schiacciato da popolarità, richieste, tifosi e giornalisti. Quando passeggiavamo con la bambina in carrozzina ci assalivano. Con mia moglie Rachele volevamo solo scappare da tutto e tutti. Poi ci siamo abituati ma è solo quando ho smesso di correre che ho cominciato davvero a vivere”.
La Gazzetta dello Sport
© RIPRODUZIONE RISERVATA