
Il passaggio al ruolo di presidente degli Spurs, dopo l'ictus del novembre scorso, chiude la carriera in panchina dell'uomo che ha costruito la più lunga dinastia Nba, guru del parquet e a suo modo personaggio unico anche fuori dal campo
dal nostro corrispondente Davide Chinellato
2 maggio - 22:54 - LONDRA
Tutti sapevano che prima o poi doveva succedere, soprattutto dopo l’ictus che lo ha fermato a inizio novembre. Ma il ritiro di Gregg Popovich da allenatore, dopo 29 anni sulla panchina dei San Antonio Spurs, è comunque uno shock. Perché quel cammino cominciato tra lo scetticismo generale il 10 dicembre 1996 si è trasformato in una leggenda, nell’epopea dell’allenatore più vincente nella storia Nba, nella carriera di un punto di riferimento al di là e al di qua dell’oceano, probabilmente del miglior coach che l’Nba abbia avuto. Oltre a vincere, Pop è diventato un simbolo, un’icona, un mito che ha accompagnato generazioni di giocatori, di allenatori (le altre 29 franchigie ne hanno cambiati 303 mentre lui è rimasto in sella) e soprattutto di tifosi. Gregg Popovich sulla panchina di San Antonio è stato un punto di riferimento per chiunque abbia amato il basket. Una bandiera che adesso si ammaina, anche se il suo è un addio alla panchina e non agli Spurs: resterà come presidente (San Antonio punta su Mitch Johnson, il vice che l’ha rimpiazzato in questa stagione), ma non potrà essere la stessa cosa.