Veste elegante e parla da primo della classe ma il suo pugno non perdona: 18 ko su 21 match tutti vinti. Il 7, in Inghilterra, va alla caccia dell’Europeo supermedi
C’è un posto dentro Ivan Zucco in cui fa freddo. Ci può entrare solo lui, e quando lo fa il suo volto cambia, si incurva, lo sguardo si fa dritto e pungente e il sorriso si spegne. Succede quando sale sul ring, è lì che questo ragazzo di 29 anni che parla come il primo della classe e veste come un dandy sa trasformarsi e diventare un predatore inesorabile. Lo dice anche il suo score da pugile professionista: 21 vittorie di cui 18 per ko. Lo dice chi gli sta attorno, "Mi mostrano le immagini e mi dicono: quello non sei tu". E lo dice anche lui, che di quella sua seconda identità ha bisogno come il pane visto che tra una settimana combatte per il titolo europeo dei supermedi in un ambiente che definire ostile è dir poco: a Barnsley (Inghilterra), nello stadio del Barnsley, contro uno di Barnsley che ha giocato nel Barnsley. Ma Ivan non ci pensa, anche perché nel suo angolo ha Marvin. "Marvin come Hagler, papà si fa chiamare così. È stato un grande pugile, più di cento incontri da dilettante quasi tutti vinti. Il suo sogno era diventare professionista, ma a 21 anni gli hanno diagnosticato un’ipertensione arteriosa, non poteva continuare. La cosa l’ha distrutto, così si è messo ad allenare. È stato lui a portarmi in palestra. Ha lasciato che facessi quello che volevo, senza fretta, e con la boxe l’amore è stato graduale. Esordio a 14 anni, incontro deludente: tre pugni in tutto, uno lo becco e due li do, vittoria".
Come hai capito che sarebbe stata la tua strada? "Semplice, vincevo. Primi 11 combattimenti: 10 vittorie e un pari, tutti mi facevano i complimenti. Nel frattempo sono sempre stato promosso, mi sono diplomato con ottimi voti, ho fatto il magazziniere e il buttafuori, alternavo otto ore di lavoro agli allenamenti. Poi sono salito di livello e ho capito che due cose fatte bene insieme non le puoi fare...". E Marvin, padre e allenatore, che diceva? "Diventando campione italiano, ho coronato il sogno che aveva lui. Quando ho vinto il titolo, era più contento di me. “Ora puoi anche smettere”, mi ha detto. E io: “Ma va, ho appena iniziato”". Ventuno incontri, 18 ko: la castagna ce l’hai. Ci nasci o si allena? "Si allena se ci nasci. E io ce l’ho sempre avuta. Da dilettante mettere ko uno è difficilissimo, sono tre round coi guanti antishock e il caschetto: pure lì ho vinto 12 volte prima del limite, e tanti altri li ho fatti contare...". Cos’è la paura? "Una volta ero convinto che fosse una cosa da perdenti. Poi ho intrapreso un percorso con una mental coach e ho capito che non è vero. Anzi, è forte chi ammette di avere paura, così può accettarla e affrontarla senza rimanerne succube".
I grandi pugili sono perfezionisti. Tu? "Madonna! Sono uno di quelli cui il riposo lo devono imporre, mi alleno quattro ore al giorno e non so mai se è abbastanza. Mi sento come un saltatore che fa una bella misura: gli altri intorno sono contenti, io penso al prossimo centimetro da aggiungere all’asticella". I grandi pugili spesso arrivano da contesti difficili e sul ring trovano una strada. Tu sei un bug nella narrativa della boxe. "Esatto. Vengo da Verbania, non arrivo da un quartiere disagiato e sono cresciuto in una famiglia normale. L’evento più traumatico che ho vissuto è stata la separazione dei miei, ma parliamo di due persone che non mi hanno mai fatto mancare nulla. Questo è un luogo comune che va smontato: la boxe non è solo uno sport di redenzione, possono farla tutti. Non c’è violenza, ma contatto". Però parliamo comunque di combattere. Per vincere devi avere il fuoco dentro. "Tutti ce l’hanno, ognuno lo esprime nel suo ambito. Io lo sento bruciare quando c’è una posta in palio importante, in un altro contesto la cattiveria che ho sul ring non saprei metterla nemmeno volendo. Tanti pugili in palestra fanno i duri e poi in un incontro si spengono, io sono il contrario". Come lo tiri fuori questo fuoco? "Quando esco dallo spogliatoio, cerco con gli occhi l’avversario e non lo mollo, come un leone che fissa la preda. Sarebbe bello cominciare ad attaccare forte fin dal gong, ma no: devo prendere un pugno. Quando lo prendo, mi scatta quel clic che mi cambia il volto. Da un certo punto di vista, è brutto, non mi godo l’entrata sul ring dove spesso mi accompagnano i miei idoli della musica: Massimo Pericolo, Ensi e Nerone, in Inghilterra ci sarà Gué Pequeno". Come hai conosciuto Gué? "Tramite un amico in comune. Gli ho proposto di allenarci insieme e ha accettato, è appassionato di boxe e non se la cava male. Dopo siamo andati a pranzo, abbiamo parlato e non era una collaborazione di tipo... commerciale: ci siamo presi proprio come persone. Mi sono allenato anche con altri artisti tipo lo stesso Pericolo o Salmo, è un mondo con cui mi trovo in sintonia. Quando ero in Messico e ho scoperto che Jake la Furia mi aveva citato nel suo disco, sono impazzito...". Che ci facevi in Messico? "Il mio manager Cherchi ha mandato me e a un altro pugile, La Femina, ad allenarci a Jiquipilco. Un posto rimasto agli Anni 70, a quasi 3mila metri di altezza, faticavi anche a respirare. La mattina alle 5 ci caricavano in un pick up e ci portavano in un campo a correre. Tornavamo, riposo, allenamento di tecnica, riposo, sparring. Poi la sera eri libero, ma il paese in cinque minuti lo giravi e, a parte la spesa, non c’era niente da fare. Un grande allenamento anche per la testa, qui siamo abituati a un mondo così frenetico...".
Boxe e musica, dicevamo. Sembrano pianeti differenti... "Invece palco e ring si somigliano. E ben venga che la musica aiuti a mettere in evidenza questo sport. Sai, guardi dieci film motivazionali e in otto ci trovi la boxe, nei video musicali vedi gente coi guantoni tipo Olly, ma poi in Italia si fatica a parlarne. Mi fa strano perché ai tempi di mio padre la gente si svegliava di notte per gli incontri. E perché è uno sport che piace, chi vede un incontro per la prima volta è difficile che non voglia vederne ancora". Come mai? "Un po’ c’è la convinzione sbagliata che andiamo ad ammazzarci, un po’ c’è una deriva generale a mostrare solo show e trash talking. Non mi piace e non credo faccia bene alla boxe". Però, qualche tuo collega dice, l’immagine per un pugile conta tanto. "Verissimo, specie per gli sponsor che sono fondamentali. Ma molti vogliono crearsi dei personaggi che non sono, scimmiottano Conor McGregor, che però ce l’ha dentro e non fa finta. Bene o male, basta che se ne parli, dicono... boh, io vorrei che di me si parlasse solo bene". In Inghilterra affronti Callum Simpson, pugile strano. Ben più alto di te, eppure gli piace scambiare da vicino... "Per me è positivo, così parte del mio lavoro la fa lui: alto com’è, andargli sotto sarebbe un problema. È bravo, ma in certi frangenti si scopre, ed è lì che proverò a infilarmi". Sarà un inferno, a Barnsley, giocherai fuori casa. "Mi gasa, ho tutto da guadagnare: visibilità, telecamere, un titolo europeo in palio, un pubblico enorme. È lui che deve stravincere per dimostrare qualcosa, non io. Comunque vada, poi mi rilasso. Ma se vinco mi si apriranno porte importantissime".