L’ex fantasista francese: “A Spalletti devo tanto, mi ha insegnato a leggere il gioco. Totti giocava e soffriva per i colori della maglia, sembrava Puyol”
Lorenzo Cascini
2 novembre - 11:25 - MILANO
La sua più grande qualità è sempre stata l’intelligenza. Rubava il tempo, capendo in anticipo il gioco, spesso facendo un tocco in meno. E dove non arrivava con il fisico - appena 164cm di altezza - ha sempre compensato con grandi letture e giocate sublimi. Ludovic Giuly lo fa anche davanti ai microfoni, anticipando la prima domanda. “So già che mi vuole chiedere del gol al Milan. È il ricordo più bello che ho in Italia”. Fu anche il suo ultimo guizzo all’Olimpico. Una girata sotto la curva sud, fondamentale per una Roma che inseguiva l’Inter di Mancini e lottava per lo scudetto. Giuly in Serie A ha giocato solo un anno, stagione 2007-08 con Spalletti allenatore.
Giuly, partiamo dalla gara di domenica a San Siro. Spazio ai ricordi: al Milan fece uno dei suoi sei gol segnati in Italia.
“Sì, ricordo anche l’azione: Vucinic prova a sfondare, si crea una mischia e la palla capita a me. Mi coordino e in mezza girata infilo il portiere. Quel gol è stato anche decisivo per la vittoria”.
In panchina in quella Roma c’era Spalletti, ora nuovo allenatore della Juventus.
“Fu lui a volermi. Ricordo un paio di chiamate già prima che decidessi di accettare. È stato un grande, mi ha insegnato a curare la parte tattica. A volte era davvero maniacale, ripetevamo la stessa cosa fino all’infinito… però poi in partita succedeva esattamente quello che ci aveva detto in settimana. È un maestro nel leggere le gare”.
La convinse anche Mexes?
“Sì… diciamo che quell’estate mi ha marcato stretto, fino al momento della firma. Io volevo lasciare il Barcellona e cercavo nuovi stimoli, lui mi ha aiutato ad ambientarmi. Tempo qualche mese e già conoscevo tutto della città”.
Si sono dette tante cose sul suo addio alla Roma, soffriva gli allenamenti troppo duri?
“Ecco, tante cose sono state interpretate male. All’inizio ero abituato diversamente, ma ho imparato presto e mi sono messo a disposizione. Poi avevo 32 anni e non ero più un ragazzino, ma non è certo per questo che scelsi di andare via a fine anno”.
E quale fu il motivo?
“Tante ragioni insieme, non solo una. Tra queste anche il voler giocare di più”.
Si porta qualcosa dentro dall’esperienza in giallorosso?
“L’affetto dei tifosi, una curva così è qualcosa di unico. Ricordo al mio arrivo, una folla incredibile all’aeroporto. Anche quando abbiamo vinto la Coppa Italia è stato bello”.
In attacco con lei c’era Totti, rimase stupito da qualcosa?
“Io ho giocato con tanti campioni, arrivato a Roma non mi aspettavo di trovare qualcuno così forte. Mi stupì per leadership e carisma: gli bastava uno sguardo per farsi rispettare. In più Francesco è un vero tifoso, uno che soffre insieme alla città se non vince. In questo mi ricordava Puyol”.
A Barcellona, invece, giocava con Messi, Eto’o e Ronaldinho. Un flash?
“Beh che dire, era uno spettacolo continuo. E parlo soprattutto degli allenamenti. Dinho non lo scopro di certo io, ma in settimana ti lasciava davvero a bocca aperta. È il calcio nella sua forma più pura. Insieme a lui e Samuel stava sbocciando il talento di Messi: era già un extraterrestre. Nessuno di noi ha mai avuto il minimo dubbio. Anche solo nelle partitelle vedevi che era diverso dagli altri”.
Yamal può essere l’erede di Leo?
“Sì, ma va seguito e gli va dato tempo. Soprattutto deve essere consigliato dalle persone giuste. Per giocare al Bernabeu non basta il talento, ci vuole tanta forza mentale. Yamal è giovane, deve imparare”.
In chiusura torniamo sulla partita di domenica. Che sfida sarà?
“Sono due grandi squadre, mi aspetto una bella sfida. Sarà una battaglia. Tiferò per i giallorossi, sono rimasto legato a Roma e alla sua gente anche se l’ho vissuta solo per una stagione”.

