Crespo: "Io, calciatore per caso. Il compagno di squadra più forte? Al Milan. Istanbul, storia maledetta"

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L'ex bomber di Parma, Lazio, Milan e Inter si racconta: "Sono stato raggiunto da Lautaro, micidiale, ho un po' di malinconia. Mi piacerebbe tornare in Serie A da allenatore"

Andrea Schianchi

Giornalista

16 ottobre - 23:54 - PARMA

Essere raggiunto da Lautaro Martinez nella classifica dei cannonieri dell’Argentina (35 reti) gli ha generato una doppia reazione: di felicità per il "Toro" che si dimostra sempre più implacabile e sempre più necessario alla Selecciòn, e di malinconia, "perché — spiega Hernan Crespo — il tempo passa, ho superato i cinquant’anni, ho i capelli grigi e, quando gioco le partitelle con i ragazzi che alleno al San Paolo, non mi riescono le cose che facevo una volta. Ma adesso ho altro a cui pensare, sto sulla panchina di una grande del futebol brasiliano, il San Paolo, e dedico le mie energie a questo club per farlo tornare alla gloria".

Partiamo da Lautaro Martinez e dalla sua prolificità. Il suo giudizio? 

"È un attaccante completo e lo ha dimostrato in questi anni all’Inter e con l’Argentina. In area di rigore è micidiale, vede la porta come pochi altri. Sa giocare con la squadra, dialoga con i compagni e attacca gli spazi. È bravo nel dribbling. Che cosa posso dire di più? Sì, lo considero un campione. Quando un centravanti la butta dentro, c’è poco da aggiungere: ha fatto il suo dovere". 

È diventato un vero leader. 

"Proprio così e si vede da come gioca. Ha personalità, i difensori avversari lo temono e raddoppiano la marcatura. Ciò significa che ha raggiunto la piena maturità". 

Adesso facciamo un salto nel passato: il suo rapporto con la Nazionale? 

"Fantastico. Ogni volta che segnavo baciavo la maglia, un gesto di amore verso il mio Paese e verso la mia gente. Il primo gol fu contro l’Ecuador, a Buenos Aires, partita valida per le qualificazioni al Mondiale del 1998. Avevamo una nazionale fortissima. A parte il sottoscritto, c’erano Batistuta, Veron, Almeyda, Simeone, Zanetti, Sensini, Chamot, Ortega, Claudio Lopez. Allenatore Daniel Passarella, l’uomo che mi aveva lanciato nel grande calcio al River Plate. Però fummo eliminati dall’Olanda ai quarti di finale e fu una delusione terribile". 

Era il suo primo Mondiale. Poi vennero quelli del 2002 e del 2006. 

"Nel 2002, in Giappone e Corea, fu un disastro. Non superammo il primo turno. E nel 2006 venimmo eliminati, sempre ai quarti, dalla Germania padrona di casa ai calci di rigore. Per tutta la carriera ho inseguito il Mondiale: la mia generazione è nata con il mito di Maradona e della Coppa del 1986, il Gol del Secolo, e tutte quelle faccende lì. Abbiamo sognato di far rivivere agli argentini quei momenti magici, ma non ci siamo riusciti. È un rimpianto che mi porto dentro".

Già che siamo in argomento: altri rimpianti? 

"Istanbul 2005, finale di Champions League tra Milan e Liverpool. Dopo la rete di Maldini, segno una doppietta, finiamo il primo tempo in vantaggio 3-0 e poi gli inglesi ci rimontano e perdiamo ai rigori. Non è mica facile da digerire una sconfitta dopo aver realizzato una doppietta... Per anni non ho più voluto rivedere quella partita. Soltanto di recente ho fatto pace con quella storia maledetta. Però non insistiamo troppo, perché altrimenti mi torna fuori la rabbia". 

Il compagno di squadra più forte con il quale ha giocato? 

"Non scelgo soltanto per le qualità tecniche, ma soprattutto per quelle morali. E dico Paolo Maldini. Sono stato con lui per una stagione al Milan e ho capito come si deve comportare un capitano". 

Oggi lei fa l’allenatore. Più facile essere giocatore o sedere in panchina? 

"Un giocatore, in linea di massima, pensa a se stesso e al suo benessere. Un allenatore deve pensare a un gruppo di venticinque o trenta persone. Secondo voi qual è il lavoro più pesante? Io faccio sempre l’esempio di un professore di scuola che ha la responsabilità dell’istruzione di un’intera classe. Io mi sento così quando dirigo un allenamento".

I suoi punti di riferimento? 

"Per il mestiere di allenatore, dico tre nomi. Ancelotti, Mourinho e Bielsa. Carlo, per me, è stato come un padre quando sono arrivato in Italia nel 1996. Avevo ventun anni, ho imparato tutto da lui. Mou è uno straordinario motivatore, l’ho sperimentato ai tempi del Chelsea. Nessuno entra nelle teste dei giocatori come fa lui. E Bielsa è un visionario: sa andare oltre il presente, sa interpretare il calcio in modo moderno. Mi ispiro a loro, ma so che non raggiungerò mai i loro successi. Però qualcosa ho vinto anch’io in panchina... In Argentina, in Brasile, in Qatar e negli Emirati Arabi ho raccolto soddisfazioni e successi". 

La squadra alla quale è rimasto più legato? 

"Il Parma. Mi hanno acquistato che ero poco più che un bambino e mi hanno fatto diventare un centravanti di livello mondiale. E poi a Parma ho vinto parecchio. Mi viene da ridere se penso che, quando feci il provino per il River Plate, non immaginavo di diventare un calciatore. Ero andato lì per accompagnare un amico e mi ritrovai a giocare la partitella. Siccome non ero malaccio, mi presero. Avevo in camera il poster di Van Basten. Ogni tanto in televisione trasmettevano le immagini del Grande Milan di Sacchi e io restavo incantato dai gesti dell’olandese. Cercavo di imitarlo, durante gli allenamenti, ma come si fa a imitare un fenomeno così? È impossibile, non ci sono più stati centravanti di quel livello. Forti sì, anche fortissimi. Ma Van Basten era di un altro pianeta". 

Che cosa vorrebbe fare da grande? 

"Allenare una squadra europea, magari. Anzi: italiana. Sarebbe la chiusura del cerchio. Non poniamoci limiti e aspettiamo, intanto devo pensare al San Paolo".

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