Battlefield 6, la recensione: Electronic Arts fa un passo avanti. E Call of Duty non è lontano...

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L’autunno caldo dei videogiochi passa per la tradizionale sfida tra i due colossi degli sparatutto in prima persona

Paolo Sirio

24 ottobre - 17:12 - MILANO

Con una Electronic Arts a un passo dalla vendita agli arabi del fondo PIF e al genero di Trump, ecco riproporsi l’eterna sfida tra Battlefield, sparatutto in prima persona dalle fortune alterne, e Call of Duty, punta di diamante del catalogo Microsoft-Activision Blizzard nonché uno dei videogiochi più venduti di sempre. Da un lato Call of Duty ha ormai una sua identità solidissima, affinata nel tempo e riconoscibile in ogni iterazione; dall’altro Battlefield continua a portarsi addosso la maledizione di dover “essere diverso” per non scendere in un confronto diretto (e impari) con il rivale storico. Una sfida identitaria più che tecnica, quella di DICE: trovare la propria nicchia, il proprio spazio, in un mercato che sembra già assegnato. Ma a forza di provarci si rischia di smarrirsi, o di intraprendere una strada così impervia da non riuscire più ad uscirne. Battlefield 6 è la prova di come la serie provi ancora una volta ad aggiustare il tiro, tra ritorni alle origini, nuovi compromessi e l’immancabile voglia di grandezza.

storia già sentita

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In buona sostanza, Battlefield 6 dimostra perché la campagna non c’era in Battlefield 2042: non ha davvero niente da dire dal punto di vista ludico. La modalità serve a dare un contesto al multiplayer, a inquadrare narrativamente fazioni e personaggi, ma non tenta nemmeno di offrire spunti inediti. È una modalità storia che avrebbe potuto essere un semplice filmato introduttivo: il suo valore è più estetico (niente di impressionante, a onor del vero) e atmosferico che d’intrattenimento puro. Tecnicamente grezza ma dalla scrittura audace - tirare in ballo la Nato in un momento geopolitico così delicato non è da tutti -, il racconto costruisce uno scenario fantapolitico ambientato in un 2028 più vicino che mai. Rispetto a Call of Duty, Battlefield paga anni di ritardo evolutivo sul fronte single-player: COD ha ormai consolidato un linguaggio fatto di approcci multipli agli obiettivi e semi-open world, senza rinunciare a personaggi carismatici e ritmo cinematografico. BF6, invece, resta ancorato ad una formula scolastica: video pre-renderizzato, script, sparatorie mille contro uno, sezioni stealth comandate e poco spazio per la libertà d’azione. Questa rigidità tradisce il senso della “differenza” che il franchise riesce invece ad esprimere nel multiplayer: il Battlefield che in rete trova una sua logica, qui fatica ad esistere.

scontro diretto

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La riduzione di ambizione rispetto a 2042 ha fatto probabilmente bene al gioco, sebbene su larga scala sia spesso tuttora caotico e dispersivo. Nelle modalità a media scala, invece, Battlefield 6 dà il meglio di sé: buona leggibilità dell’azione, atmosfera coinvolgente, time to kill equilibrato: è un Battlefield forse meno epico ma più giocabile, un compromesso che funziona. Il feedback delle armi è un po’ leggero: si fatica a percepire l’impatto dei colpi, e in certi casi persino a tenere l’arma ferma. Non ne saremmo particolarmente preoccupati: lo stesso difetto era stato rilevato e corretto a ridosso del lancio del predecessore. I veicoli continuano più o meno amabilmente a rompere gli equilibri del gameplay, soprattutto i carri armati, e restano una delle ragioni principali per cui chi volesse giocare “seriamente” dovrebbe evitare le modalità più ampie. È l’eredità a cui Battlefield non vuole rinunciare, ma il fascino del caos ha sempre un prezzo. E, a proposito di eredità, fanno il loro ritorno le classi, che danno un indirizzo chiaro di come giocare e quale ruolo interpretare in partita. Anche se è ottima l’idea di associare a ciascuna un privilegio specifico su una sezione di armi, all’atto pratico il sistema rimane alquanto leggero: tutti possono comunque fare un po’ di tutto, come nel caso del revive accessibile non solo ai medici. Le modalità distintive Corsa, Sfondamento (media scala) e Conquista ed Escalation (larga scala) ruotano tutte intorno ad obiettivi di squadra e differiscono solo per sfumature, come la presenza o meno di vite limitate tra attacco e difesa. Dopo un iniziale spaesamento, non ce n’è una che davvero non funzioni, ma è evidente quali funzionino di più. È nella media scala che Battlefield 6 si scrolla di dosso quella sensazione da battle royale un po’ casuale che non avevamo amato in 2042: scene da guerra vera e propria, con squadre che si coordinano spontaneamente prima di attraversare un viale, coprendosi a vicenda e muovendosi come un’unica entità. È qui che il titolo di DICE mostra la sua reale potenza di fuoco contro Call of Duty: non tanto nel disegnare mappe smisurate (non a caso, quelle urbane come Il Cairo sono le migliori), ma nel concepire lo scontro come un’esperienza collettiva, dove la figura dell’eroe che vince da solo non sussiste. Battlefield 6 non ha ancora pienamente interiorizzato questa lezione, ma rispetto al capitolo di quattro anni fa sembra averne compreso almeno in parte il valore.

battlefield 6, il verdetto

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Internet ci insegna che è superfluo dare giudizi netti su una materia viva come i videogiochi online: l’imponderabile viralità, la risposta della comunità storica, le patch sono ormai fattori determinanti per il successo di un titolo e sono spesso fuori dal controllo di uno sviluppatore. Il Battlefield 6 di oggi resta un po’ claudicante rispetto agli estremismi che avevano condannato 2042, ma ne mitiga abbastanza da offrire una base più credibile e sostenibile nel tempo. Funziona? Per ora, i numeri positivi della beta, i pre-order e le previsioni di vendita (oltre 5 milioni di copie al lancio) fanno ben sperare per il futuro del gioco e conseguentemente di una serie che, nonostante tutto, continua ad aggrapparsi alla sua diversità.

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