«Attenti al dottor Ia: nelle cure l'intelligenza artificiale può diventare un'arma a doppio taglio»

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L'intervista al teologo e al medico

I vantaggi e i rischi secondo Padre Paolo Benanti, presidente del Comitato per l'IA per l'informazione di Palazzo Chigi, e Massimo Massetti, cardiochirurgo e direttore del dipartimento Cuore al Gemelli di Roma

di Marzio Bartoloni e Francesca Cerati

25 luglio 2025

A sinistra: Paolo Benanti. È professore di Etica, bioetica ed etica delle tecnologie presso la Pontificia Università Gregoriana

L'intelligenza artificiale (IA) se usata male rischia di dare il colpo di grazia alla relazione tra medico e paziente, «già oggi messa in profonda crisi da un modello di cure atomizzato e fatto di tante singole prestazioni in cui si è concentrati solo a curare la malattia e non il malato. Se la tecnologia prendesse il dominio la cura si frammenterebbe ancora di più in mille rivoli digitali». Se usata bene come strumento al servizio del curante è invece in grado di «potenziare questa relazione riportando al centro la cura»: si pensi al medico di famiglia che grazie all'IA gestisce meglio le mille richieste quotidiane che gli arrivano dai suoi pazienti o a un avatar che consiglia bene il paziente su come e quando assumere i suoi farmaci fino alla frontiera della medicina predittiva che in un Paese con milioni di malati cronici può essere una rivoluzione. Insomma l'intelligenza artificiale contrariamente a quanto si immagina può «riavvicinare il paziente» al medico invece che allontanarlo, «restituendo tempo ed energie per umanizzare di nuovo questa relazione che è alla base della medicina».

Di questo ne sono convinti Padre Paolo Benanti, presidente del Comitato per l'intelligenza artificiale per l'informazione di Palazzo Chigi, e Massimo Massetti, cardiochirurgo e direttore del dipartimento Cuore al Gemelli di Roma. Per il teologo e teorico delle tecnologie e il clinico nominato dal ministro Schillaci a far parte del tavolo per l'umanizzazione delle cure, l'applicazione dell'IA nella Sanità ci espone a grandi opportunità, ma anche a potenziali rischi. Intanto gli italiani si mostrano impazienti di vedere le luccicanti promesse di questa tecnologia nella Sanità, come dimostra un recente sondaggio di Demopolis, condotto su un campione di 3.400 persone, per i manager delle Asl di Fiaso. Se gli italiani temono l'intelligenza artificiale sul luogo di lavoro, sono pronti a darle il benvenuto negli ospedali e negli ambulatori perché in maggioranza - il 61% - sono convinti che migliorerà le cure e taglierà la burocrazia.

Hanno ragione gli italiani sulle promesse dell'IA?

—MM. È comprensibile. Nell'immaginario del cittadino la macchina sbaglia meno dell'uomo. Il problema è un altro: se la medicina sempre più specializzata ha portato tanti progressi oggi però cura attraverso un modello che è in fallimento fatto di tante prestazioni frammentate dominate da tecnicismi e tecnologia, piuttosto che dagli aspetti legati alla relazione con il paziente. Con uno slogan si può dire che oggi si cura la malattia piuttosto che il malato. In questo modello fallimentare innestare un progresso straordinario come l'intelligenza artificiale potrebbe portare più danni che vantaggi.

—PB. Concordo sul fatto che oggi c'è un problema di crisi dell'attuale modello di cure e da qui la speranza degli italiani che grazie all'intelligenza artificiale qualcosa possa cambiare in meglio. Qui si aprono due scenari: uno che vede l'intelligenza artificiale prendere il posto di questa relazione unica medico-paziente per cui invece di esserci una promessa di cura verso un soggetto vulnerabile si afferma un'assistenza frammentata in mille rivoli digitali negando così di fatto la richiesta essenziale del paziente e cioè che qualcuno si prenda cura di lui. L'altro modello è quello che deve seguire il nostro Servizio sanitario e in cui l'intelligenza artificiale amplifica questa relazione con il medico e la migliora. Si tratta di un orizzonte non solo tecnologico, ma politico e antropologico

La dipendenza dalla tecnologia può mettere a rischio anche il ragionamento clinico del medico?

—MM. Se la cura è solo una sequenza di prestazioni dove domina la tecnologia con l'arrivo dell'IA tutto si impoverisce e dominano le macchine. Se invece c'è un medico che prende in cura il paziente nella sua completezza si enfatizza l'aspetto umano e relazionale tra sofferente e curante. La cura non è solo applicare dei protocolli che possono fare anche le macchine, la cura è un rapporto tra due persone. L'importante è dare all'IA un perimetro ben preciso di aiuto e al servizio del medico, in questo modo può esprimere tutto il suo potenziale virtuoso. Serve una nuova architettura di cure che non sia fatta solo di protocolli, ma punti a una alleanza terapeutica che guarisce bene e meglio il paziente.

—PB. L'innovazione che porta l'intelligenza artificiale è come la costruzione di un nuovo ospedale. La forma che diamo ai muri di questo ospedale daranno forma al tipo di cura che vogliamo. La tecnologia non è un destino, dobbiamo solo interrogarci se ne vogliamo una che metta al centro la relazione con il paziente e da cittadini lo dobbiamo pretendere. Oggi i medici sono formati in modo che percepiscano anche in base ai sintomi del paziente la sua condizione in modo profondo e completo: si tratta di persone che hanno fatto della loro capacità medica una vocazione per la vita, se c'è una tecnologia che è sottrattiva o è competitiva con il medico allora stiamo facendo danni a noi cittadini e alla classe medica. Guardiamo piuttosto all'ottimizzazione dei servizi che può derivare dall'IA: se sono un medico di pronto soccorso e ho un paziente critico grazie a questa tecnologia posso gestire e organizzare in tempi brevi la risposta di più esami, come una tac o un esame del sangue e programmare l'intervento a esempio del cardiologo. L'ospedale da struttura statica di mattoni diventa dinamica e può gestire al meglio i percorsi di ogni paziente al suo interno. Ma faccio un altro esempio di vita quotidiana: in convento vivo con un 102enne e un 86enne cardiopatico e la domanda che sento di più è: quando devo prendere la mia pillola? Prima o dopo i pasti? Ecco mi immagino il Ssn che sviluppa un interfaccia che parli con il paziente in modo semplice e consigli l'anziano migliorando la sua aderenza terapeutica senza mandare mille messaggi al proprio dottore.

Le grandi piattaforme stanno sviluppando strumenti di intelligenza artificiale capaci di leggere lastre, proporre diagnosi e suggerire terapie. Vi immaginate un algoritmo accanto al medico, in ambulatorio o in ospedale? E i cittadini si affideranno al “dottor IA” invece che al proprio medico?

—MM. Quello che descrive è uno scenario che racchiude tutti i rischi e che io non vorrei vedere. Questi algoritmi esistono già nei telefoni, nelle tac e nei computer accanto ai medici. Ma se il futuro fosse questo, il medico perderebbe valore e la motivazione a studiare: come con la calcolatrice, prima ci si sforzava di fare calcoli complessi, poi nessuno li ha più fatti. Se la medicina resta frammentata in tanti atti tecnici, l'IA potrà perfezionarla ma anche amplificarne i limiti. Serve cambiare il modello di cura, riportando al centro il paziente e la relazione: solo così la tecnologia potrà davvero migliorare la qualità dell'assistenza.

—PB. Il rischio è che l'IA diventi il nuovo “dottor Google”, molto più potente. Chi paga il prezzo più alto della non competenza sono già gli animali: i veterinari raccontano di padroni che seguono consigli trovati online, con conseguenze disastrose. Lo stesso può accadere alla salute delle persone. Serve alfabetizzazione digitale: quando si diffuse la corrente elettrica si insegnò a non toccare fili scoperti, con l'IA dobbiamo fare lo stesso formando i cittadini.

E dal lato del cittadino, che già oggi interroga “dottor Google” e domani chiederà al “dottor IA”?

—MM. Non dobbiamo vietarlo, ma le persone devono sapere che questa non è cura. Oggi già vanno online, domani interrogheranno “dottor IA”, ma la differenza tra un consiglio automatico e una relazione di cura resta enorme.

—PB. Oltre alla formazione dei cittadini, serve anche un sistema che non scarichi responsabilità: oggi per certificare un bisturi servono controlli rigidissimi, mentre un algoritmo che suggerisce terapie può aggirare tutto scaricando la decisione sul medico. È inaccettabile in un sistema sanitario pubblico: così si monetizzano competenze formate con enormi investimenti collettivi.

L'IA può essere davvero uno strumento al servizio del medico? Quali vantaggi concreti vedete per la vita professionale quotidiana?

—MM. Se l'IA aiuta la relazione di cura, il suo contributo è prezioso: alleggerisce il carico burocratico, accelera diagnosi e prestazioni, restituendo tempo ed energie al medico da dedicare al paziente.

—PB. In ricerca è già rivoluzionaria: ci aiuta a progettare nuove proteine, base di farmaci innovativi. Anche nella pratica quotidiana può gestire migliaia di e-mail che intasano gli studi dei medici di famiglia e potenziare strumenti come stetoscopi aumentati, che segnalano quando serve uno specialista. Sono supporti che liberano tempo, senza sostituire la relazione.

La medicina predittiva promette di anticipare chi si ammalerà: quali sono le implicazioni?

—MM. Da sempre il medico stratifica i rischi interrogando il paziente su familiarità e fattori genetici. Gli algoritmi lo fanno più rapidamente, ma non sostituiscono la cura. L'IA darà un impulso enorme, purché resti uno strumento che assiste l'uomo: dobbiamo separare il dato predittivo dalla relazione di cura e costruire un nuovo modello che coordini risorse e competenze.

—PB. Il punto non è conoscere il rischio, ma come usare quel dato. Se so che un paziente svilupperà una malattia, posso avviare percorsi che riducano i danni, abbattendo costi e impatto sulla salute. Ma la prevenzione non deve diventare predestinazione: nel nostro modello la salute resta un diritto da garantire, non una variabile di mercato.

Questo può aiutare anche nella programmazione del Servizio sanitario nazionale?

—MM. Anticipare eventi acuti nelle patologie croniche permette di intervenire prima, evitando il sovraccarico dei pronto soccorso e migliorando le cure. È un'occasione per ripensare il modello organizzativo, passando da un sistema a prestazioni a uno che coordina risorse e competenze.

—PB. L'IA ci permette di fare di più e meglio, ma serve un “patto sociale” che guidi il suo impiego etico. Non possiamo fare un semplice “download” di modelli altrui: dobbiamo inventare un sistema nostro, capace di coniugare nuove tecnologie e valori del nostro Servizio sanitario.

In conclusione, usata bene l'IA può rendere la sanità più efficiente e umana?

—MM. Assolutamente sì: liberando tempo al medico, riporterà al centro la relazione di cura, cuore della medicina. Il rischio, se domina la tecnologia, è disumanizzare ancora di più il sistema.

—PB. L'IA ci offre la possibilità di riscrivere il “contratto sociale” della cura, unendo strumenti nuovi e valori nostri: sta a noi decidere se coglierla.

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