Davide Ancelotti è da un mese tecnico a Rio: "Qui il calcio è passione. Mio padre chiede e soffre. Se fai l’allenatore avere il mio cognome è pesantissimo. Non sarà semplice superare i problemi e i pregiudizi"
La nuova vita di Davide Ancelotti non è poi tanto diversa da quella vecchia. Campo, allenamenti, riunioni, sedute video, colloqui con i giocatori, partite. Come ha sempre fatto da quando ha iniziato a seguire papà Carlo. Era il 2012, nello staff dei preparatori del Psg. "Ora, però, cammino da solo. Sono il primo allenatore, non più il secondo. La responsabilità è aumentata, e la sento tutta. Guidare il Botafogo non è mica uno scherzo". Finora tre partite, due vittorie, un pari e zero gol subiti. Oggi la sfida col Corinthians.
Come si trova nel ruolo?
"Ho voluto la bicicletta e adesso pedalo. I dirigenti del Botafogo, i collaboratori, i giocatori e il pubblico mi stanno aiutando molto. Fare il primo allenatore comporta un dispendio di energie non indifferente: devi avere tutto sotto controllo, devi dare le linee guida, devi risolvere i problemi e solo alla fine devi anche pensare a buttare giù la formazione...".
Qualcuno le ha detto: ma chi te lo ha fatto fare?
"Desideravo mettermi in gioco. A 36 anni, penso che sia naturale e umano tentare un’esperienza del genere. Mi sentivo pronto e mi sono buttato. E poi mi porto in dote una lezione, quella di mio papà: mi servirà moltissimo in questo percorso".
Il nome Ancelotti è pesante da portare?
"Se fai l’allenatore, è pesantissimo. Non posso negarlo. Ma è pesante anche portare il nome Maldini per Daniel, dopo che Paolo è stato un monumento. E per Paolo sarà stato pesante iniziare dopo Cesare... È normale. So che verrò giudicato, specie in principio, perché sono il 'figlio di Carlo'. E so anche che non sarà semplice superare i problemi e i pregiudizi. Però conosco un solo metodo per imparare a nuotare: tuffarsi in mare e muovere braccia e gambe. È quello che sto cercando di fare".
Consigli da papà?
"Ogni giorno, è il mio primo tifoso. Soffre tantissimo le gare, mi chiede, ascolta ma sempre in modo discreto. Non è invadente. Lascia che faccia la mia strada e, solo se glielo chiedo, mi dà un suggerimento".
Com’è il calcio in Brasile?
"Lo si capisce solo vivendolo. È pazzesco, c’è una passione che noi europei neanche immaginiamo. Qui vivono di pallone 24 ore al giorno, è il centro dell’esistenza. Se il Botafogo perde, i tifosi piangono: capite la responsabilità? Io alleno la squadra che è stata di Garrincha, di Nilton Santos, di Didì, di Zagallo, di Jairzinho. Sono nella leggenda".
Com’è stato accolto?
"Il pubblico mi ha accolto benissimo. E anche la società. Diffidenza non ne ho avvertita. Curiosità sì, logico. Ma contano i risultati: se fai bene, sei un fenomeno. E se fai male, ti criticano. è così ovunque e il Brasile non fa differenza".
Qual è il suo calcio ideale?
"Non ho un modello particolare. Nell’ultima stagione mi è piaciuto molto il Psg di Luis Enrique. Squadra che si muove compatta, che fa bene fase difensiva e offensiva. Il mio obiettivo è quello di dare uno stile di gioco al Botafogo e poi, come sempre, sono i calciatori a far la differenza".
Uno che vorrebbe con se?
"Un fenomeno che purtroppo ha smesso: Toni Kroos. In assoluto, il mio preferito tra quelli con cui ho avuto a che fare".
Al Mondiale sarà ancora al fianco di papà Carlo ct del Brasile?
"Se mi vorrà ancora... Partecipare a un Mondiale alla guida del Brasile è un’opportunità fantastica. Lui è molto carico, sente tantissimo l’impegno. E io gli darò una mano".
Che cosa ha imparato da papà?
"Tutto quello che so è frutto dei suoi insegnamenti; è il mio modello, non posso nasconderlo, ma non voglio essere la sua copia. Ho le mie idee, a volte abbiamo discusso su questioni tattiche. Succede quando si lavora a stretto contatto. A me piace un calcio aggressivo, molto verticale e organizzato. In questi anni ho studiato parecchio: non solo i metodi di papà, ma anche quelli di Guardiola, Klopp e di altri grandi tecnici. E poi, quando non so che fare, mi guardo una gara del Milan di Sacchi e mi vengono i brividi: quella squadra faceva, 35 anni fa, ciò che si dovrebbe fare oggi. Pressing, sovrapposizioni, aggressione dell’avversario, fuorigioco sistematico. Pazzesco".
Il suo metodo di lavoro?
"Una sola parola: dialogo. Ho imparato che con i calciatori si deve parlare, li si deve ascoltare. È così che si costruisce un gruppo vincente. Mi reputo un allenatore tranquillo, non amo alzare la voce".
Questa lezione gliel’ha insegnata suo papà?
"No, viene da dentro. Noi Ancelotti siamo fatti così. A volte, è più importante fare quattro chiacchiere con un giocatore che magari è un po’ giù di corda piuttosto che spedirlo in campo a correre. Il buonsenso è una regola fondamentale".