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Agassi vinse Wimbledon nel 1992 e non vedeva l'ora di conoscere la collega tedesca. La ritrovò sette anni dopo: erano diversi, nel look e nelle vite, ma "quell'odore di buono" non era scomparso
Un risvolto buono c’era nel fatto di aver vinto Wimbledon. Non era quella grande coppa d’oro con sopra una specie di ananas: l’aveva usata per specchiarcisi dentro appena era sceso nello spogliatoio, e aveva visto i suoi capelli lunghi, spettinati, mechati, e il pendente all’orecchio sinistro. Così poco british, pensò. Se soltanto i reali l’avessero saputo, che Andre Agassi aveva vinto sul Centre Court con il parrucchino in testa. Un risvolto buono c’era. Non era neanche suo padre, l’uomo che per tutta la vita gli aveva urlato sempre la stessa frase, "più forte. Più forte. Più forte". Lui non era contento, anzi era contento ma non sapeva dirlo, tipico degli Agassi, lo aveva capito quando lo aveva chiamato al telefono più tardi quel pomeriggio, dopo la brutale finale contro Goran Ivanisevic. "Pa’, sono io. Che ne pensi?". Glielo aveva dovuto chiedere due volte, segno che stava elaborando una risposta che gli facesse abbastanza male. "Non avevi alcun diritto di perdere quel quarto set". "Meno male che ho vinto il quinto, no?".